martedì 19 luglio 2016

Deep Purple, quando le divinità invecchiano (bene)



DI solito si va a questo tipo di concerto perché è un tributo, un tributo a una divinità pagana che, per un fortuito caso del destino, si è avvicinata tanto a noi da poterla vedere. Ma ci si va non aspettandosi grande qualità nella musica e nello spettacolo: la divinità è sì divina ma anche avanti con gli anni e questo non gioca a favore della qualità. Ma che importa, il concetto è: quando mi ricapita?
Non è questo il caso del concerto dei Deep Purple a Servigliano. Li vedi uscire sul palco mostrando evidenti segni del tempo, segni fisici che fanno pensare che quello che abbiamo appena detto è quello che ti devi aspettare: divinità acciaccate e uno spettacolo tendente al patos più che al rock. Ian Gillan è asciutto, ma ha i capelli corti, un sacco di rughe e si muove come un gatto sciancato. Poi ti ricordi che Ian Gillan si è sempre mosso come un gatto sciancato e passi oltre, e vedi Ian Paice che sembra tua nonna che indossa una strana maglietta con la faccia di Don Bosco (Don Bosco???) e ti preoccupi, anche sapendo che ultimamente non è stato troppo bene. Roger Glover è più tranquillizzante: tonico, col suo solito ghigno a metà tra il joker e l’amico sornione. Airey non somiglia a John Lord e Morse è troppo biondo. E ti dici, vabbè… almeno li ho visti.
Poi parte Highway Star e cambi subito idea: Gillan non ha più la voce di una volta, d’accordo, ma è ancora una voce unica, Glover comincia a far correre le dita sulla tastiera del basso e dici “porcazzozza, quello è Roger Glover!”. Paice parte piano, pare che non voglia far male alla batteria, poi gli escono delle rullate che dici “dove sta l’altra batteria?” e capisci: quelli sono i Deep Purple, non i nonni dei Deep Purple.
Magia della musica che fa sparire tutte le distanze, anche quelle col passato. Fa sparire anche l’assenza di Jon Lord perché Don Airey non gli assomiglierà fisicamente ma con l’Hemmond fa magie, così come Steve Morse mette le dita in posti impensabili e tira fuori suoni magici, che non saranno quelli di Blackmore, ma non lo fanno rimpiangere. I quasi 10.000 del Parco della Pace volano via, vanno in Giappone con Strange Kind Of Woman, planano su foreste incantate con Perfect Stranger, si godono i pezzi nuovi che, per la maggior parte, non conoscono ma non sono affatto male e quando a tradimento parte Smoke on The Water senti Servigliano che urla all’unisono “and fire in the sky!”. Brividi. Brividi che si moltiplicano al bis, quando parte quella che aspettavamo tutti, Hush. Ed è il visibilio. 
Questi sono i Deep Purple, quelli coi quali siamo cresciuti, quelli che cercavamo di imitare la prima volta che abbiamo imbracciato una chitarra elettrica. L'età conta poco: la divinità è viva e fa hard rock.
Due parole sui Toseland: bravo Giacomino. Un bel metal anni ’80 fa pensare che l’ex centauro sia cresciuto a pane e Judas Priest. Buona la band, divertente lo spettacolo. La seconda vita di Toseland sembra promettente quasi quanto la prima. Da tenere d’occhio.

Luca Craia

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