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sabato 27 dicembre 2014

Non era il suo letto



Si alzò per andare ad urinare che erano le tre in punto. Non accese la luce, neanche aprì gli occhi, tanto la strada dal letto fino alla tazza la conosceva a memoria. Appoggiò la mano al muro dietro il water tanto per prendere la mira ad occhi chiusi, fece quel che doveva fare ascoltando il rumore del suo prodotto che cadeva in acqua che testimoniava la sua buona mira anche a buio, tirò lo sciacquone e girò su se stesso in direzione del letto cercando di non svegliarsi del tutto per ripiombare tra le braccia di Morfeo o chi per lui senza neanche accorgersi della minzione e della passeggiata che essa aveva richiesto. Si sedette sul bordo del letto e si stese supino sotto il piumone. Ma qualcosa non tornava.
Sentiva la testa troppo bassa rispetto al solito e gli avvallamenti del vecchio materasso non corrispondevano. Ebbe la netta impressione che quello non fosse il suo letto. Anzi, ne fu sicuro. Allungò la mano in cerca dell’interruttore della lampada da comodino ma trovò il nulla, il vuoto. Non c’era l’interruttore, non c’era la lampada, non c’era il comodino. Fece per alzarsi ma un peso inconsistente sul petto gli impedì di mettersi a sedere come era nelle sue intenzioni.
Sempre più agitato cercò dalla parte opposta l’altro interruttore, quello a peretta che pendeva dal centro della spalliera del letto e che comandava la luce grande. Non c’era, l’interruttore, e non c’era nemmeno la spalliera del letto. Dietro alla sua testa anziché il rassicurante consueto pezzo di legno scolpito da una macchina a controllo numerico c’era il vuoto. La sua mano indugiò a mezz’aria alla ricerca di qualcosa di solido ma non trovò niente.
Cominciò a sudare freddo, freddo intenso e goccioline di sudore che colavano dalla fronte verso le orecchie. Lacrime cominciarono a stillare dai bordi dei suoi occhi spalancati nel buio pesto di quella che, era certo, non era la sua camera da letto. Terrore e ansia e la consapevolezza di trovarsi in un luogo sconosciuto gli annebbiarono i pensieri, la testa prese a girare, le mani a tremare, e un dolore acuminato gli trafisse la spalla e il petto sempre più oppresso da quel macigno invisibile e intangibile. Il respiro si fece corto, sempre più corto, fece per gridare aiuto ma gli uscì solo un rantolo soffocato.
Lo trovarono così, supino sul letto, con gli occhi sbarrati, steso al contrario, coi piedi sul cuscino e la testa in fondo al suo vecchio letto

venerdì 12 dicembre 2014

Giustì, la bicicletta e la macchina - di Luca Craia




Giustiniano, per gli amici Giustì, era un padre di famiglia di una famiglia numerosa. Non numerosissima per quegli anni – nell’immediato dopoguerra avere cinque figli era la norma – ma comunque pochi non erano e facevano un gran baccano. Oltretutto si viveva in poco più di tre stanze di una vecchia casa e i ragazzi erano abituati a vivere, mangiare, dormire ammucchiati di qua e di là. È facile immaginare quanto fosse frequente, per non dire continuo, litigare, strattonarsi, spintonarsi, farsi ogni sorta di dispetti tra cinque fratelli la cui età variava dagli otto ai quattordici anni.
Giustì andava a lavorare fuori paese. Ogni mattina prendeva la sua vecchia bicicletta, che teneva meglio della moglie, e pedalava per circa due chilometri prima di arrivare in fabbrica. C’era abituato, ma d’estate era caldo pedalare e d’inverno, sotto la pioggia, tra la neve, non era poi così piacevole. E gli anni cominciavano a sentirsi. Guadagnava bene, Giustì, da operaio specializzato con un’esperienza che gli veniva dal fatto di essersi messo a faticare in tenerissima età. Era tenuto in grande considerazione dal padrone che gli riconosceva uno stipendio di tutto rispetto. Così gli venne in mente un’idea e, senza dire nulla alla moglie, un giorno arrivò a casa all’ora di pranzo, si sedette al suo posto in silenzio, e ne informò la famiglia riunita intorno alla spianatura con la polenta fumante sopra.
“Ce compremo la machina” disse senza troppe sfumature mentre col cucchiaio raccoglieva un po’ di materiale giallo fumante condito coi grasselli del maiale. La moglie sgranò gli occhi e le cadde il cucchiaio. Ma non disse nulla. Il figlio più grande pensò di non aver capito e domandò, facendosi portavoce dello stupore del resto della famiglia:
- che si ditto, babbo? (che hai detto, batto?).
- So ditto che me vojo comprà la machina ( ho detto che mi voglio comprare la macchina).
- Allora so’ capito vè! (allora ho capito bene) disse la moglie.
- Perché, non te sta vene? (Perché, non ti sta bene?)
La moglie chinò la testa sulla polenta e non parlò più.
Ma scoppiò il parapiglia tra i figli. Carlo gridava “io me metto davanti!”, Maurizio replicava: “no! Davanti me ce metto io che so’ più grosso!”. “Davanti ce se mette le signore” sentenziò Mariarosa. Antonietta e Fabrizio, i più piccoli, cominciarono a disputarsi il posto dietro l’autista sul divanetto posteriore. La mamma piangeva sulla polenta. I due maschi più grandi cominciarono a spintonarsi, prima piano, poi sempre più forte e, in un attimo si ritrovarono aggrovigliati sul pavimento di mattoni tra insulti  e parolacce. I due più piccoli si presero per i capelli e cominciarono una gara a chi tirava di più. Mariarosa, la figlia di mezzo, corse in braccio alla madre a piangere in coro con lei.
Giustì finì la sua polenta con la sua solita flemma, senza muovere un muscolo, senza alzare lo sguardo dalla spianatura. Come se intorno a lui ci fosse la calma più serafica invece di una rissa furibonda si versò un bicchiere di vino e se lo bevette con la lentezza che meritava. Posò il bicchiere, prese il tovagliolo, si pulì bene la bocca, si alzò e battè forte i pugli sul tavolo, tanto forte che pareva un botto di capodanno. La rissa si bloccò, anzi, si congelò. I figli si voltarono verso il padre, la moglie e la figlia piangenti alzarono gli occhi verso di lui. E Giustì, con voce alta ma senza strillare, lo sguardo fermo, le mani incrociate sul petto sentenziò la sua decisione finale: “calete jò tutti!” (scendete tutti). Prese la sua bicicletta e tornò al lavoro.

lunedì 30 giugno 2014

Amori impossibili. Dopo 39 anni Antonio cerca ancora la sua Isabel – di Anna Lisa Minutillo




Non sono una persona troppo melensa, chi mi conosce lo sa. Non amo le canzoni d’amore che divulgano melassa a profusione ma in alcuni casi ascolto e cerco di leggere fra le righe dei racconti e di ascoltare l’istinto che mi parla o resta silente a seconda di come e di cosa mi viene raccontato .

In questo caso mi sono fermata ad ascoltare, un po’ perché volevo dare un piccolo appiglio ad un uomo che sta investendo tempo e dedizione nella ricerca di una situazione che nonostante siano passati svariati anni è lì ferma immobile che lo guarda e che gli scava l’anima come solo i sentimenti silenti e reali i sanno fare, ed un po’ anche per dimostrare che gli uomini non sono proprio tutti uguali nonostante la cronaca di questi ultimi tempi di cui mi sono occupata solo pochi giorni fa.

Ma  procediamo con ordine: questo è il racconto di un amore nato 39 anni fa e mai dimenticato, questo è il racconto di una semplice persona, una persona come tante, questo è il racconto di un adolescente che ha questo tormento nel cuore e che vorrebbe pronunciare la frase “ti ho ritrovata” nella sua esistenza.

Antonio Cavarra abitava a Floridia (PA), nel 1975 era un adolescente di 16 anni che si affacciava alla vita e che come tutti gli adolescenti ed aveva un forte entusiasmo e una forte curiosità per le altre culture.

Un pomeriggio si trovava in piazza, nella piazza della sua Floridia insieme ad un amico, si parlava molto nei giorni precedenti di  alcune persone che sarebbero dovute arrivare e fare tappa nella loro terra, la Sicilia, per effettuare  un viaggio in bicicletta come si usa molto in Colombia, e lui ed il suo amico erano in piazza ad attendere l’arrivo del bus che li avrebbe condotti a Floridia.

Nel ’74 queste persone si erano recate in Spagna  e successivamente sarebbero arrivate li in Sicilia, quindi la loro cittadina si stava organizzando da un po’ di giorni per accoglierli, ne parlavano i quotidiani del luogo e l’entusiasmo era abbastanza alto, rappresentavano una bella novità.

Rivive questi attimi con una voce entusiasta Antonio Cavarra intanto che me ne parla ed ho la netta sensazione che il tempo per lui si sia fermato lì.

Questo viaggio vedeva come protagonisti un padre di nome Marcantonio Navas, un figlio di nome Jorghe Navas ed una ragazza ventenne all’epoca, di nome Isabel Navas.

Le famiglie di Floridia con grande senso di ospitalità si erano fatte carico di queste persone per assicurargli vitto ed alloggio ma anche per mostrargli la loro terra.

I cittadini erano informati di questa  maratona ciclistica e si sono organizzati per far sì che queste persone potessero essere accolte nelle loro abitazioni per rendere loro la permanenza meno onerosa.

La famiglia di Antonio Cavarra ospitò proprio Isabel Navas nella loro casa, cedendo la camera di Antonio a questa ragazza ventenne che, insieme a suo padre ed a suo fratello, stava effettuando questa maratona ciclistica in giro per il mondo.

Trascorrevano i giorni e furono compiute tappe che interessavano Palermo, Messina, oltre che Floridia stessa.

Tappe che vedevano protagonista suo fratello Jorghe e che consistevano nel girare in tondo sulle piazze dei vari luoghi nel minor tempo a disposizione, senza fermarsi e senza poter né bere e  nemmeno alimentarsi; Antonio lo aveva sempre accompagnato, incitato e sostenuto durante la loro permanenza.

Intanto qualcosa stava cambiando nello suo sguardo, perché sentiva battere il cuore forte ogni volta che incontrava quello di Isabel.

Erano due adolescenti ed ai richiami di queste capriole del cuore era anche difficile resistere così, giorno dopo giorno, conoscendosi e frequentandosi, videro nascere questa bella storia d’amore pulita ed innocente, così come le grandi storie d’amore devastanti ed intense che accadono a chi si affaccia a questo sentimento per la prima volta nella vita.

Il padre di Isabel snobbava un po’ la famiglia di Antonino nonostante questa gli desse accoglienza e sostegno senza pretendere in cambio nulla, ma i due ragazzi andavano avanti a far crescere ed alimentando questo amore adolescenziale così, senza porsi troppe domande e senza sapere dove e se li avrebbe condotti da qualche parte questa loro passione.

Si amarono in modo intenso Antonio ed Isabe,l superando le barriere di culture differenti, superando il fatto che il loro viaggio iniziato a Bogotà non era ancora giunto a compimento e sicuramente li avrebbe annientati a causa delle mille difficoltà che avrebbero dovuto superare, ma l’amore era più grande di loro e ci si erano tuffati senza tenere conto di nulla.

Antonio fa rivivere le loro passeggiate, i loro sogni, le loro ambizioni così semplicemente che mentre me ne parla lo vedo rincorrere questi momenti, sento anche l’amarezza a tratti della sua voce quando si incrina nel proseguimento del racconto.

Una mattina i Navas decisero di ripartire, il loro viaggio deve proseguire. Qui iniziano le dolenti note perché questo voleva sicuramente dire che i due avrebbero dovuto separarsi, e quando si vive qualcosa di unico e magico la separazione non può essere indolore a quell’età, e 39 anni fa, forse, dietro alla parola amore c’era davvero qualcosa di differente, di più profondo, qualcosa che avrebbe solcato l’anima e la continua a solcare nonostante gli anni trascorsi.

Ripartirono i Navas e risalirono lo stivale in direzione Toscana. Isabel continuava a chiamare Antonio al telefono quasi tutte le sere, per quattro mesi i loro contatti restarono stabili e la distanza continua a non rappresentare un ostacolo alla loro storia.

Antonio era un ragazzo di soli 16 anni però, con la scuola da frequentare, con una famiglia che provvedeva al suo mantenimento e che resasi conto che quella non è una storiella estiva ma che continua ad albergare nel cuore e nella testa del loro figlio, non riusciva a fare a meno del porre ostacolo al sentimento e cercare di riportare con i piedi per terra questo ragazzo sognatore.

Questo lavorio mentale iniziò ad insinuare dubbi nella mente del ragazzo, che proseguì gli studi e che subito dopo la scuola, trovò un lavoro anche per contribuire con la famiglia al suo mantenimento.

Una sera Isabel chiamè Antonio e lui senza  rifletterci molto, con l’impeto di un giovane ragazzo e dopo tutte le pressioni subite in famiglia, dice ad Isabel di voler sospendere quel rapporto con lei. Si interruppe così una storia d’amore che avrebbe voluto invece proseguire, senza una vera motivazione da parte sua, ma solo per non aver avuto la forza ed il coraggio di osare e di sfidare tempo e distanza.

La famiglia di Antonio Cavarra ha continuato a vivere in quella casa fino a 10 anni fa. Vi era ancora sua madre  ed è stata proprio la morte di quest’ultima l’occasione per recarsi nuovamente a Floridia.

Quella casa è tutt’ora abitata da una sorella, il numero di telefono non è mai stato sostituito e la mente di Antonio continua a porsi un mucchio di domande. Isabel potrebbe averlo cercato ancora ma potrebbe anche aver ricevuto della brutte risposte dalla sua famiglia e lei potrebbe essere stata vittima di silenzi che non hanno mai dato la possibilità ad Antonio di saperne nulla, ma soprattutto non hanno mai dato ad Antonio la possibilità di sapere se lei si fosse arresa oppure se abbia continuato a cercarlo esattamente così come da ben 39 anni sta facendo lui.

Mi sono fermata ad ascoltare perché ravvedo la costanza, l’impegno, la volontà di sapere e di chiedere scusa ad una donna che lui non ha avuto il coraggio di continuare ad amare, sì perché Antonio vorrebbe poter riuscire a dire solo questa parola: scusami per non essere riuscito a sfidare le avversità che al tempo vedevo come ostacoli insormontabili.

La vita di Antonio è proseguita certamente, ha abbandonato la Sicilia subito aver conseguito il diploma, è diventato un cittadino del mondo,si è spostato sempre ed ha viaggiato sempre forse anche per inseguire questo sogno di poter riabbracciare la persona che la sua vita l’ha segnata profondamente fino al punto di scegliere a distanza di tanti anni come tappa definitiva la Svizzera.

Ora Antonio vive lì e ci vive perché il sogno di Isabel era proprio questo: studiare medicina e trasferirsi a vivere in Svizzera. Lui è li dal 2007 e in qualche modo sta aspettando la possibilità di riscattarsi e di spiegare ad Isabel le ragioni per cui lui ha interrotto in modo brusco ed a telefono questa storia che lo vede ancora adolescente alla ricerca di un perdono meritato poiché vittima anche lui di imposizioni famigliari che all’epoca non era in grado di contrastare.

Antonio ha 55anni ora e Isabel 59, ma Isabel dov’è?

La sua ricerca prosegue da sempre ed in questo ultimo anno in modo più intenso, facendosi aiutare da radio libere, da qualcuno che ha la volontà di ascoltare questo racconto e farlo in qualche modo proprio regalandolo anche agli altri, sfruttando la piattaforma di fb, insomma in qualunque modo fosse possibile arrivare ad Isabel.

Antonio sa che questa persona potrebbe avere una vita sua, non vuole in alcun modo urtare la sua privacy vuole solo scusarsi per non aver saputo farsi valere come avrebbe dovuto.

Insiste su questo aspetto e quando io gli faccio notare, facendo un po’ l’avvocato del diavolo, che in lei potrebbe essere non restata nessuna traccia di questa relazione lui mi dice: «non importa, la sola cosa che a me interessa è scusarmi e farle sapere quanto ci ho tenuto e ci tengo realmente a lei al punto di aver fatto il suo sogno di vivere in Svizzera il mio e di averlo realizzato comunque per lei».

Non amo la melassa ma amo la coerenza, amo vedere che al mondo esistono ancora della persone che non si arrendono e non smettono di credere nei sogni,amo sapere che chiunque leggerà questa sua testimonianza ne resterà ammirato per la rettitudine con cui la vita trafficata di Antonio si è svolta, amo non dedicare tempo a personaggi noti ma a far diventare protagonisti tutti coloro che realmente arrivano al cuore e ne lasciano traccia proprio come ha fatto Isabel sul cuore di Antonio ha lasciato tracce indelebili che lo hanno reso così bello.

Le ricerche sulla famiglia Navas arrivano fino agli anni ’80, data in cui Marcantonio Navas a bordo di una moto ha attraversato Taiwan nel  1977, invece, dopo la Toscana in cui gli eventi delle maratone ciclistiche erano sponsorizzati dalla Latina Assicurazioni  i tre risultavano essere in Inghliterra da allora nessuna notizia.

Saranno molte le Isabel che si identificheranno in situazioni come questa, in un amore adolescenziale strappato dal cuore con forza,saranno molte le Isabel che non sapranno mai che a volte è la vita a decidere per te, saranno molte le Isabel che non sapranno mai quanto sono rimaste invece presenti nello scorrere della vita di chi le ha tanto amate e forse le ama silenziosamente ancora,ma  la Isabel giusta almeno SCUSAMI deve sentirselo dire e  se questo racconto potrà contribuire a questa cosa riempirà il cuore di tutte le altre Isabel che ancora continuano a credere nella magia dell’amore.

Lo dico ad Antonio alla fine del nostro dialogo: «Non posso prometterti nulla, sono poca cosa io ma se questo potesse aiutare qualcuno a riconoscersi o se chi per essa potesse contribuire a darti un po’ di serenità sarebbe bellissimo!»

 


domenica 5 gennaio 2014

I Racconti della Marca Bassa - Paura!



Luca fumava. A scuola era vitatissimo, era vietato anche farsi vedere fumare, era peccato mortualissimo. Ma Luca fumava lo stesso. Fumava prima di entrare, all’uscita, a ricreazione. E se gli prendeva male fumava anche durante le lezioni, in bagno, chiuso in quei loculi col cesso in mezzo che erano stretti e puzzolenti ma garantivano un certo anonimato, sempre che si facesse attenzione ad uscire quando nella zona aperta del gabinetto non ci fosse nessuno.
A ricreazione fumava nel cortile della scuola, grande e alberato, abbastanza ampio da riuscire ad imboscarsi, bruciare una sigaretta e rientrare senza essere beccato da qualche professore. I pini secolari, le aiuole, i muretti offrivano un ottimo riparo sia per il freddo d’inverno che per gli sguardi inquisitori. Così i pochi fumatori del liceo si ritrovavano in cortile, puntuali alle undici ogni mattina, quasi fosse l’appuntamento prefissato per una riunione di chissà quale società segreta. E forse, tutto sommato, di società segreta si trattava, con un suo codice di comportamento e i suoi gesti omologati e omologanti. La fratellanza tra gli adepti si manifestava quando uno di loro rimaneva senza paglie e qualcuno si predisponeva di buon grado a fornirgliene una, ben sapendo che presto ne sarebbe rientrato in possesso, non appena anch’egli sarebbe rimasto col pacchetto vuoto a ricreazione, impossibilitato ad andare a comprarle.
Quella mattina, però, tirava un vento boia, teso e furioso. Scuoteva le cime dei pini che sembravano rabbrividire e, infilandosi tra gli aghi e rami aguzzi, fischiava e ululava come nei film dell’orrore. Quella mattina la società dei fumatori decise tacitamente di saltare la sigaretta della ricreazione, tanto non sarebbe nemmeno stato possibile accenderla con quel vento. Luca però non volle rinunciare ed era certo che col suo zippo sarebbe riuscito a dar fuoco al tabacco. Chiese così a Mauro di fargli compagnia. Mauro non aveva mai fumato in vita sua forse perché figlio di tabaccaio e, in quanto tale, troppo intossicato già soltanto dalla vista delle sigarette per desiderare di fumarne una. Riluttante ma legato a Luca da antica e profonda amicizia nonché da quel rapporto di fedeltà che di solito si allaccia condividendo il banco,  Mauro accettò di accompagnare il nicotomane suo amico a  fumarsi la sua dose di veleno e uscì con lui nella tempesta.
Il vento era davvero impetuoso e, come se non bastasse, era pure gelido. La cosa più inquietante era però il rumore, tanto forte che i due appena si sentivano. Si ripararono dietro il tronco del pino più grosso e, forse, più vecchio, Luca si acquattò facendo un cucchiaio con la mano sinistra attorno all’accendino per ripararlo dall’aria mentre col pollice della destra faceva ruotare il disco abrasivo sulla pietrina che scintillò e incendiò la benzina sullo stoppino. Impossibile impedire ad uno Zippo di accendersi. Luca accese così la sua Chesterfield e cominciò ad aspirare il fumo prima che il vento stesso si fumasse l’intera sigaretta col suo soffio vorace. Intanto Mauro guardava e incassava il collo nel giubbotto cercando invano di riparare la testa, augurandosi che l’amico facesse presto a soddisfare il suo vizio. I capelli di Mauro non reagirono al vento ma quelli di Luca erano tutti per aria, lunghi com’erano.
La sigaretta era quasi a metà quando udirono un rumore fortissimo, più forte del fischio del vento, che proveniva da sopra le loro teste. Uno scricchiolio enorme, il suono del legno che si spacca, un suono prolungato e minaccioso. Alzarono lo sguardo e videro la punta del pino che guardava verso terra anziché verso il cielo e si muoveva in loro direzione lentamente, un po’ perché trattenuta dai rami superstiti, un po’ perché certe situazioni si percepiscono come al rallentatore.
E fu al rallentatore che scapparono da sotto l’albero, almeno questa fu la sensazione perché in realtà correvano veloci come il lampo. Correvano verso le scale che portavano al sicuro, al piano di sopra, dentro la scuola. Correvano a braccia alzate, agitandole al vento come maledicendo qualcuno. Correvano e urlavano ma non si capiva cosa perché le loro voci erano coperte dal rumore del vento mentre la punta del pino, enorme, si andava a schiantare esattamente dove stavano loro qualche secondo prima. Corsero urlando silenziosamente lungo le scale, entrarono nel corridoio centrale della scuola senza rallentare, lo percorsero tutto di corsa svoltando a sinistra verso quello più stretto delle aule. Si infilarono sempre correndo nella loro e si sedettero in velocità ognuno al proprio posto, tremanti e ansimanti e ancora con le braccia alzate. E’ rimasta leggendaria la scena nella scuola, ancora la si narra a distanza di anni. E si ride ricordando la parola che i due gridavano correndo. Urlavano: “Paura! Paura!”.

venerdì 3 gennaio 2014

I Racconti della Marca Bassa - POCALISSE




Faceva un caldo dell’altro mondo il giorno del funerale di Giancarlo. Solo che, se andate in paese oggi, a distanza di anni, e chiedete a qualcuno, il primo che passa, di raccontarvi dei funerali di Giancarlo vi si chiederà: “Giancarlo chi?”. Perché, vedete, nei paesini di quella regione stretta tra gli Appennini e il mare Adriatico, avvezza alle perturbazioni dai Balcani e dello Scirocco estivo, benedetta da un clima mitissimo d’estate e comunque piacevole d’inverno, un luogo dove si va dalla costa al monte Sibillino in meno di un’ora, i nomi non dicono nulla: contano i soprannomi. E il nostro Giancarlo (che di giancarli lì ce n’erano diversi) si chiamava per tutti Pocalisse. Di fatto questo curioso personaggio, sempre vestito con un grembiule da farmacista o da macellaio, fate voi, bianco all’origine e chiazzato di ogni colore del creato per le sue peregrinazioni urbane, era per tutti Pocalisse perché, come nei romanzi d’appendice o nei peggiori film di fantascienza, dove c’è sempre quella specie di diogene dei poveri che gira urlando per le strade annunciando la fine del mondo, girava appunto per i vicoli del paesello avvertendo il prossimo dell’Apocalisse imminente. E dava anche la data precisa: il 27 luglio del millenovecentottantare. Si sa: da quelle parti si storpiano i nomi, figuriamoci i soprannomi. E così Giancarlo divenne per tutti Pocalisse.
Lui lo annunciava già dall’ottantadue per cui ci si meravigliò non poco quando il 26 luglio del fatidico ottanantatre, altra giornata di un’afa infernale, Pocalisse fu trovato stecchito e un po’ appuzzato vicino ad un bidone della spazzatura davanti al palazzaccio, stroncato da un infarto o da una roba simile. Non avendo parenti prossimi, e quelli poco più che prossimi o remoti che fossero erano latitanti per vergogna della suddetta parentela, il funerale fu preso in carico dal Comune. E siccome Pocalisse era da tutti conosciuto e tutto sommato amato per quel tocco di colore e stramberia che dava ad un borgo altrimenti morto stecchito, si decise di dargli un funerale coi controfiocchi, in chiesa col parroco, il Sindaco e pure i carabinieri.
Dato che il decesso era fatto risalire intorno alle ore dodici del giorno prima, le ventiquattrore di legge cadevano ad un orario improbabile per un funerale, soprattutto in base al caldo boia che faceva. Così si stabilirono le funzioni per le diciassette, che avrebbe almeno rinfrescato un po’. E le si stabilirono nella chiesa nuova, quella fuori le mura, perché si prevedeva un flusso di gente al di sopra del normale.
Alle sedici e trenta del 27 luglio 1983 alla chiesa nuova fuori le mura, sul selciato, c’erano almeno quaranta gradi. Dentro la chiesa non si sa ma di gradi ce n’erano tanti. E c’era anche tanta gente, forse troppa per la struttura. Col caldo bestia che faceva tutte le donne erano venute armate di ventaglio. Gli uomini presero il libretto dei canti e lo trasformarono tutti in ventaglio anch’esso.  Il parroco cominciò la messa e già c’era tutto un frullare di mani e mantici più o meno improvvisati. Il caldo non calmava, anzi, e verso metà predica c’era già qualcuno che dubitava di arrivare vivo alla benedizione. Don Dino, poi, si applicò non poco per fare una di quelle omelie che sarebbero pure state toccanti a novembre ma il 27 di luglio alle diciassette e rotti, con quel caldo, erano solo una specie di tortura inquisitoria.
Alla Comunione erano ancora tutti vivi eccetto Pocalisse. I ventagli però frullavano rumorosamente. I pochi che ebbero la forza di alzarsi per comunicarsi portarono con sé il ventaglio o il facente funzione e non smisero di sventolarsi nemmeno mentre il prete gli dava l’ostia. Il rumore dell’aria smossa dalle ventole a mano si faceva evidente, forte addirittura. Si arrivò alla benedizione che si sentiva più il suono dell’aria smossa che le parole di don Dino. E qui accadde l’incredibile: quando il prete prese a spargere l’incenso sulla bara il ritmo dell’ondeggiare del turibolo prese a coincidere con quello della gran parte dei ventagli. Dopo pochi istanti, per un incredibile scherzo del destino, tutti i ventagli andavano allo stesso tempo, avanti e indietro. La chiesa si rinfrescò di botto.
Ognuno sentiva l’aria del proprio ventaglio e quella del vicino, di quello davanti e anche di quello dietro.  L’aria cominciò a turbinare, piano, poi crescendo, un po’ più forte, più forte sempre più forte, e iniziò a girare e girare e vorticare nella chiesa. Tutti smisero di sventolarsi ma ormai era l’inerzia a muovere l’aria, unita a qualche strano fenomeno fisico dovuto al contrasto tra aria fredda e calda che non so spiegare. Fatto sta che si generò un vento forte, il vento girava su se stesso con velocità sempre più spinta. Nella chiesa nuova fuori le mura volava tutto: fogli, piante, indumenti. La gente si buttò a terra terrorizzata. I banchi ballavano, le candele si spensero, le luci elettriche pure. Il prete cominciò a salmodiare in latino. Quelli vicini alla porta cercarono di prendere l’uscita ma le porte si richiusero di schianto. E un vortice fortissimo si sprigionò dalla platea verso il tetto. E il tetto, con un rumore simile a quello di un tuono ma più terrificante, in un nuvolo di calcinacci polverosi, volò via. Volò per quasi un chilometro e si schiantò in mezzo a un campo di girasoli, rovinandoli tutti. Insieme al tetto volò via la bara che, però, fece poca strada e si fermò, rovesciata, sul selciato davanti alla chiesa.
Pochi istanti di armageddon e tutto finì. Il vento si calmò e la gente si rialzò. Il prete riprese coscienza e cominciò a placare il terrore dei fedeli. I carabinieri aprirono a spallate la porta. Uscirono tutti come l’acqua esce dallo scarico del lavandino e fu incredibile che nessuno fini calpestato. Tutti corsero a casa, sindaco compreso, e rimasero solo il prete e i carabinieri di fronte alla bara sottosopra del povero Giancarlo. Il paese volò via sulle proprie gambe, anelante la sicurezza delle proprie mura e l’oblio.
La spiegazione ufficiale fu che sulla chiesa si era abbattuta una tromba d’aria estiva e aveva divelto il tetto costruito, si suppose,  non proprio a regola d’arte, tanto che l’ingegnere che aveva firmato il progetto, invero senza nemmeno leggerlo, fu inquisito ma poi assolto per insufficienza di prove.  Ma chi c’era giura ancora che la tromba d’aria non era venuta da fuori: era nata dentro la chiesa, dai ventagli. E un paio dei carabinieri che andarono a raccogliere la bara di Pocalisse, dopo un paio di bicchieri al bar (presi fuori servizio, ben inteso) si lasciarono sfuggire di avere sentito, o almeno era parso loro di sentire, una specie di sghignazzo che sembrava, ribadirono sembrava, provenire da dentro la cassa.