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giovedì 18 dicembre 2014

RACCONTI. C’ERA UN A VOLTA: FAVOLA A O REALTÀ - DI ANNA LISA MINUTILLO



C’era una volta lo splendore e l’incanto dello sguardo che vagava per il mondo sapendo che avrebbe incrociato prima o poi quello di altre persone che navigavano alla ricerca dei sogni da realizzare.

C’era una volta l’armonia dei giochi semplici, dei profumi e dei cortili che si abbellivano sempre quando vi era un avvenimento da festeggiare, un istante da fermare, un’emozione da catturare .

C’era una volta il calore degli abbracci che si dispensavano come doni caduti dal cielo, che contenevano tutte le parole non dette, tutte le promesse che si volevano realizzare, tutte le speranze da rincorrere nei sorrisi e nei cuori di chi senza bisogno di sentirci parlare, solo guardandoci si rendeva conto di come stavamo.

C’era una volta l’attesa di una telefonata a casa da fare o da ricevere di nascosto per timore dei sentimenti, perché non si voleva far capire cosa stesse accadendo alle nostre giovani vite tutte ancora da vivere, non si volevano palesare i nostri primi batticuori per lo studentello dinoccolato ed anche un po’ imbranato che dopo mesi e impegnandosi molto era riuscito a conquistarsi il nostro numero di telefono.

C’era una volta l’odore del Natale, il profumo degli agrumi e della cannella, il calore della casa, le fiabe da leggere e condividere, i regali sotto l’albero da scartare rigorosamente dopo la mezzanotte, i momenti da immortalare, i bigliettini da leggere ad alta voce dove trovavamo il coraggio di scriverci ciò che non riuscivamo a dirci durante l’anno e l’importante non era tanto il regalo ma lo stare tutti insieme.

C’era una volta l’amicizia quella vera quella disinteressata, quella che ti faceva diventare complice e custode di segreti e di bugie, di marachelle da non raccontare a nessuno, di esperienze da provare, delle prime sigarette fumate di nascosto, delle prime “bigiate” a scuola ,dei primi appuntamenti quelli che ti sconvolgevano il cuore e ti facevano pensare che quello fosse realmente l’amore.

C’era una volta la solidarietà, il possedere molto poco ma quel poco essere in grado di suddividerlo in tanti piccoli spicchi che potessero illuminare anche se per pochi istanti le vite altrui.

C’era una volta la comprensione per chi stava peggio di noi, per chi non riusciva a comprare tutti i mesi vestiti ai propri bambini ed allora li si aiutava, gli si passava gli indumenti smessi ma sempre lindi di cui si aveva molta cura poiché vi erano solo quelli.

C’era una volta il cielo che ci soffermavamo spesso a guardare sia durante il giorno che la sera quando si trapuntava di stelle ed illuminava le nostre notti, quelle che dopo aver spento la lampada sul comodino sembravano diventare nere e scure ma era solo questione di attimi e poi si illuminavano di sogni e stelle eh si perché allora riuscivamo ancora a vederle le stellate.

C’era una volta il mare, il suono della chitarra in spiaggia, i falò pieni di fiammelle rosse e scoppiettanti che ti facevano diventare romantica, che ti facevano fermare il tempo negli occhi di chi non sapeva quanto avevi iniziato ad amare silenziosamente.

C’era una volta la musica, i cantautori, i testi che riempivano di suggestione le giornate, le parole che non riuscivi a dire mai ma che urlavi a squarciagola quando le cantavi, c’era il ritmo, i primi balli, le prime uscite in discoteca, l’entusiasmo per i primi passi verso l’indipendenza.

C’era una volta la libreria che iniziava a riempirsi, questi testi che acquistavi rinunciando magari ad un’uscita in più, quei libri che ancora ti accompagnano oggi in cui ti rifugi chiudendo il mondo fuori, quelle poesie che ti accompagnano da sempre, quel rumore di pagine che si girano di notte quando tutti riposano e tu non vuoi smettere di leggere per riuscire a capire come andrà a finire ciò che stai leggendo, l’odore della carta.

C’era una volta il mare quel mare con le onde che facevano fragore, quel mare che aveva fondali belli da togliere il fiato, quel mare in cui ti abbandonavi e su cui a bordo di una piccola barchetta a remi ti allontanavi perché non ne avevi mai abbastanza di guardarlo, di restare in sua compagnia e in cui ti tuffavi per riemergere solo quando il fiato non ti bastava più, quel mare che oggi è stato sporcato, che trasporta speranze e sogni ma spesso diventa la tomba dei sogni di queste anime naviganti.

C’era una volta la voglia di sognare senza il rischio di sentirsi ridicoli, la cura per le nostre ambizioni, la voglia di fare, la voglia di reagire, il desiderio di realizzare i propri obbiettivi senza arrendersi prima di averci provato realmente.

C’era una volta il silenzio quello vero che parlava al cuore e non ti tartassava la testa con tutte queste futili voci che non danno valore aggiunto a ciò che in anni hanno creato per poi distruggere.

C’era una volta l’onestà, la trasparenza il rispetto per le vite altrui, l’integrità morale, la cura per chi restava indietro.

C’era una volta la semplicità, la libertà di poter esprimere un gesto senza il timore di essere equivocati o di apparire falsi .

C’era una volta l’amore quello puro, quello che non dava ansia, quello che ti innalzava sopra il cielo perché non ti rendeva vittima di così tante uccisioni come accade ora in nome del progresso e dell’apertura mentale.

C’era una volta l’educazione, il rispetto per modi differenti di pensare, la pazienza, il senso del sacrificio che non ti dava la competizione per l’accettazione perché tu eri tu indipendentemente da ciò che possedevi o meno.

C’era una volta il lavoro, quello che ti dava una dimensione nel mondo, quello che ti permetteva di metterti alla prova, quello che ti dava un reddito e ti permetteva di toglierti qualche soddisfazione una volta ogni tanto, ora ci sono solo fabbriche vuote, piene solo dei ricordi che restano dentro quando tutto cessa e smetti di vivere sereno anche tu.

C’era una volta la scuola che ti formava, che ti aiutava a crescere a migliorare a convivere con realtà differenti ma che soprattutto funzionava, le insegnanti erano contente e diventavano quasi delle seconde mamme, ora quando va bene vengono sfruttate e sostituite molto spesso senza permettere loro di dimostrare il loro valore.

C’era una volta ed ora non c’è più (o c’è molto poco) la politica che funzionava, gli ideali che smuovevano generazioni, la voglia di essere giusti e di occuparsi realmente e fattivamente del popolo, ora c’è la voglia di essere egoisti e superficiali, di riempirsi le tasche a costo dei sacrifici altrui e quando si viene scoperti si viene anche premiati .

C’era una volta la pace, i colori ,le feste di paese, le danze popolari, i mercatini con pochi prodotti ma buonissimi, i casolari di campagna che ora per vedere dobbiamo sostituirli con gli agriturismi ma spesso non gli si avvicinano nemmeno un po’.

C’era una volta il camino che raccoglieva tutta la famiglia, i vicini di casa, i parenti donando il gusto della convivialità, ora si rientra, ci si barrica in casa e si ha il timore nel fare tardi la sera perché dobbiamo attraversare angoli della città che temiamo.

C’era una volta il coraggio di parlare, la voglia di reagire, il senso della giustizia e della verità e ci siamo noi qui e ora, piccoli pezzetti di vita in giro per il mondo, noi che non ci arrendiamo e che non vogliamo arrenderci, noi che abbiamo ancora bisogno di vederla possibile questa favola, noi che spesso temiamo che non cambierà mai ma che poi riusciamo ancora a stupirci per un sorriso, un abbraccio inaspettato, una parola di conforto pronunciata in un epoca dove le parole non si usano più.

C’era una volta una bambina che si chiedeva come sarebbe diventata da grande ed ora c’è una donna che non sa smettere di essere bambina. C’era una volta ed è ancora qua e sempre resterà in chi non avrà il timore di restare uguale a se stesso anche se gli scenari intorno continuano a mutare, anche se il mondo in cui viviamo non è ciò che desideravamo, anche se l’alba non ha più gli stessi colori di una volta ma continua ad esserci ed a preannunciare il nuovo giorno.

Questo è il mio modo per augurare un periodo sereno a tutti voi, per ringraziare chi legge ciò che scrivo e continuo a scrivere, di esserci anche quando non ci sono io, di volare alto perché sa che io credo nei sogni e nelle aspirazioni personali.

Questo è il modo che ho ritrovato fra le dita di farvi capire che esistiamo nonostante tutto e tutti, questo è il modo che ho trovato l’unico che conosco per parlare ai vostri cuori che non hanno dimenticato le cose semplici, che ancora credono possibile un tuffo nel blu che anche se non è blu come anni fa ha ancora il potere di incantarci, di catturaci e di elevarci perché il mare della vita deve essere attraversato, nutrito, navigato, compreso, cullato ma soprattutto amato.

venerdì 3 gennaio 2014

I Racconti della Marca Bassa - POCALISSE




Faceva un caldo dell’altro mondo il giorno del funerale di Giancarlo. Solo che, se andate in paese oggi, a distanza di anni, e chiedete a qualcuno, il primo che passa, di raccontarvi dei funerali di Giancarlo vi si chiederà: “Giancarlo chi?”. Perché, vedete, nei paesini di quella regione stretta tra gli Appennini e il mare Adriatico, avvezza alle perturbazioni dai Balcani e dello Scirocco estivo, benedetta da un clima mitissimo d’estate e comunque piacevole d’inverno, un luogo dove si va dalla costa al monte Sibillino in meno di un’ora, i nomi non dicono nulla: contano i soprannomi. E il nostro Giancarlo (che di giancarli lì ce n’erano diversi) si chiamava per tutti Pocalisse. Di fatto questo curioso personaggio, sempre vestito con un grembiule da farmacista o da macellaio, fate voi, bianco all’origine e chiazzato di ogni colore del creato per le sue peregrinazioni urbane, era per tutti Pocalisse perché, come nei romanzi d’appendice o nei peggiori film di fantascienza, dove c’è sempre quella specie di diogene dei poveri che gira urlando per le strade annunciando la fine del mondo, girava appunto per i vicoli del paesello avvertendo il prossimo dell’Apocalisse imminente. E dava anche la data precisa: il 27 luglio del millenovecentottantare. Si sa: da quelle parti si storpiano i nomi, figuriamoci i soprannomi. E così Giancarlo divenne per tutti Pocalisse.
Lui lo annunciava già dall’ottantadue per cui ci si meravigliò non poco quando il 26 luglio del fatidico ottanantatre, altra giornata di un’afa infernale, Pocalisse fu trovato stecchito e un po’ appuzzato vicino ad un bidone della spazzatura davanti al palazzaccio, stroncato da un infarto o da una roba simile. Non avendo parenti prossimi, e quelli poco più che prossimi o remoti che fossero erano latitanti per vergogna della suddetta parentela, il funerale fu preso in carico dal Comune. E siccome Pocalisse era da tutti conosciuto e tutto sommato amato per quel tocco di colore e stramberia che dava ad un borgo altrimenti morto stecchito, si decise di dargli un funerale coi controfiocchi, in chiesa col parroco, il Sindaco e pure i carabinieri.
Dato che il decesso era fatto risalire intorno alle ore dodici del giorno prima, le ventiquattrore di legge cadevano ad un orario improbabile per un funerale, soprattutto in base al caldo boia che faceva. Così si stabilirono le funzioni per le diciassette, che avrebbe almeno rinfrescato un po’. E le si stabilirono nella chiesa nuova, quella fuori le mura, perché si prevedeva un flusso di gente al di sopra del normale.
Alle sedici e trenta del 27 luglio 1983 alla chiesa nuova fuori le mura, sul selciato, c’erano almeno quaranta gradi. Dentro la chiesa non si sa ma di gradi ce n’erano tanti. E c’era anche tanta gente, forse troppa per la struttura. Col caldo bestia che faceva tutte le donne erano venute armate di ventaglio. Gli uomini presero il libretto dei canti e lo trasformarono tutti in ventaglio anch’esso.  Il parroco cominciò la messa e già c’era tutto un frullare di mani e mantici più o meno improvvisati. Il caldo non calmava, anzi, e verso metà predica c’era già qualcuno che dubitava di arrivare vivo alla benedizione. Don Dino, poi, si applicò non poco per fare una di quelle omelie che sarebbero pure state toccanti a novembre ma il 27 di luglio alle diciassette e rotti, con quel caldo, erano solo una specie di tortura inquisitoria.
Alla Comunione erano ancora tutti vivi eccetto Pocalisse. I ventagli però frullavano rumorosamente. I pochi che ebbero la forza di alzarsi per comunicarsi portarono con sé il ventaglio o il facente funzione e non smisero di sventolarsi nemmeno mentre il prete gli dava l’ostia. Il rumore dell’aria smossa dalle ventole a mano si faceva evidente, forte addirittura. Si arrivò alla benedizione che si sentiva più il suono dell’aria smossa che le parole di don Dino. E qui accadde l’incredibile: quando il prete prese a spargere l’incenso sulla bara il ritmo dell’ondeggiare del turibolo prese a coincidere con quello della gran parte dei ventagli. Dopo pochi istanti, per un incredibile scherzo del destino, tutti i ventagli andavano allo stesso tempo, avanti e indietro. La chiesa si rinfrescò di botto.
Ognuno sentiva l’aria del proprio ventaglio e quella del vicino, di quello davanti e anche di quello dietro.  L’aria cominciò a turbinare, piano, poi crescendo, un po’ più forte, più forte sempre più forte, e iniziò a girare e girare e vorticare nella chiesa. Tutti smisero di sventolarsi ma ormai era l’inerzia a muovere l’aria, unita a qualche strano fenomeno fisico dovuto al contrasto tra aria fredda e calda che non so spiegare. Fatto sta che si generò un vento forte, il vento girava su se stesso con velocità sempre più spinta. Nella chiesa nuova fuori le mura volava tutto: fogli, piante, indumenti. La gente si buttò a terra terrorizzata. I banchi ballavano, le candele si spensero, le luci elettriche pure. Il prete cominciò a salmodiare in latino. Quelli vicini alla porta cercarono di prendere l’uscita ma le porte si richiusero di schianto. E un vortice fortissimo si sprigionò dalla platea verso il tetto. E il tetto, con un rumore simile a quello di un tuono ma più terrificante, in un nuvolo di calcinacci polverosi, volò via. Volò per quasi un chilometro e si schiantò in mezzo a un campo di girasoli, rovinandoli tutti. Insieme al tetto volò via la bara che, però, fece poca strada e si fermò, rovesciata, sul selciato davanti alla chiesa.
Pochi istanti di armageddon e tutto finì. Il vento si calmò e la gente si rialzò. Il prete riprese coscienza e cominciò a placare il terrore dei fedeli. I carabinieri aprirono a spallate la porta. Uscirono tutti come l’acqua esce dallo scarico del lavandino e fu incredibile che nessuno fini calpestato. Tutti corsero a casa, sindaco compreso, e rimasero solo il prete e i carabinieri di fronte alla bara sottosopra del povero Giancarlo. Il paese volò via sulle proprie gambe, anelante la sicurezza delle proprie mura e l’oblio.
La spiegazione ufficiale fu che sulla chiesa si era abbattuta una tromba d’aria estiva e aveva divelto il tetto costruito, si suppose,  non proprio a regola d’arte, tanto che l’ingegnere che aveva firmato il progetto, invero senza nemmeno leggerlo, fu inquisito ma poi assolto per insufficienza di prove.  Ma chi c’era giura ancora che la tromba d’aria non era venuta da fuori: era nata dentro la chiesa, dai ventagli. E un paio dei carabinieri che andarono a raccogliere la bara di Pocalisse, dopo un paio di bicchieri al bar (presi fuori servizio, ben inteso) si lasciarono sfuggire di avere sentito, o almeno era parso loro di sentire, una specie di sghignazzo che sembrava, ribadirono sembrava, provenire da dentro la cassa.