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Il centro storico di Visso |
Ho fatto in giro per L’Aquila, l’altro
giorno, accompagnato dall’amico Gianni Grimaldi che si è prestato a farmi da
guida tra le bellezze della città e i segnali relativi alla ricostruzione che,
a dieci anni dall’evento, è partita, sì, ma procede con grande lentezza. Se
fuori dalle mura storiche la città sembra stia riprendendo una sua normalità. Nel
centro storico ancora si strascica, le ferite sono ancora aperte e alcune
ancora sanguinano. Sono passati dieci anni, dicevamo, e L’Aquila è una grande
città, un capoluogo di regione, una città che non può morire. E non morirà: sta
soffrendo molto, ma riuscirà a tornare viva, con molte cicatrici ma viva.
Qualche giorno prima avevo fatto un
giro nell’Alto Nera marchigiano, tra Visso e Ussita. E l’impressione avuta da
quei luoghi, dopo un anno che non andavo, è stata molto diversa da quella che
mi ha dato L’Aquila. Non mi voglio dilungare e annoiare il lettore con le
consuete considerazioni sulle macerie, la pessima qualità delle SAE, le
lungaggini burocratiche la situazione stagnante che si percepisce ovunque.
Vorrei parlarvi di segnali meno evidenti ma, secondo me, chiarissimi nel loro
significato. E per farlo, vi racconto Visso.
Visso ha alcune aree SAE intorno all’abitato
storico. Ho avuto modo di vedere bene quella di Villa Sant’Antonio, a metà
strada tra la frazione e il centro. Una schiera di casette tutte uguali,
anonime, incastrate tra loro tra viottoli dritti, anch’essi tutti uguali, anonimi.
Non so se qualcuno ha pensato di intitolare questi viottoli a qualche
personaggio storico, come si fa con le vie, ma credo sia irriguardoso. Penso
siano semplicemente numerati, ma non possi giurarci. Mi informerò, lì per lì
non ci ho pensato. Di fronte a questo claustrofobico villaggio c’è un bel complesso
commerciale, nuovo nuovo. Bello davvero, tutto in legno, molto accogliente e ben
inserito nel paesaggio. Dentro vi hanno trovato casa alcune delle attività
commerciali che hanno resistito, prima cercando di sopravvivere nelle casette
di legno emergenziali del primo momento, allestite intorno ai giardini, e ora
qui. Poco distante c’è un altro centro, bello anche quello.
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Santa Maria di Paganica, L'Aquila |
Verrebbe da dire che, tutto sommato, si
sta ripartendo. Secondo me, invece, il segnale non è positivo. Non lo è perché,
intorno al centro storico ora non c’è davvero più niente. Poca gente ai
giardini, una volta cuore dell’estate vissana, nessuno nelle vie intorno alle mura.
Del resto, che vai a fare? La zona rossa è ancora la stessa di tre anni fa, c’è
qualche maceria in meno ma i ponteggi stanno tutti lì, come le case ferite, le
finestre cieche, la polvere dei calcinacci e dell’oblio che si sta depositando
piano piano. E, se l'idea di far risorgere Visso è questa, è un'idea sbagliata.
Segnali negativi, perché una città non
può ripartire senza la propria storia, la propria memoria, il proprio patrimonio
culturale. Una città non può riprendersi la sua vita normale quando il suo
cuore è sbarrato dalle reti rosse e da un cartello che minaccia sanzioni se le
superi. Il nuovo sembra finto, di plastica e cartone, se non c’è la volontà di
riprendersi l’antico, la storia, l’anima. Dietro quelle reti rosse c’è Visso. Visso
non è e non può essere un villaggio di costruzioni tutte uguali, uno o due
centri commerciali dove ammucchiarsi. Visso è la Collegiata, la piazza, il ristorante
nel vicolo, il negozietto all’angolo con la vetrina segnata dal tempo, il
profumo di pasticceria che invade l’aria mescolandosi a quello delle cantine,
dei fiori. Quella Visso lì è stata incartata tre anni fa, e lasciata lì. Ci
crescono le erbacce alte un metro, ci crescono gli echi del passato, e il
silenzio, sempre più forte.
A L’Aquila stanno facendo rinascere il
centro storico. Piano piano, con troppa lentezza. Ma intanto ci puoi camminare
in mezzo, ci puoi mangiare e bere. A Visso no. A Ussita no. A Pieve Torina no. In
mezzo a quei viottoli sintetici non ci andrai mai a camminare. La
desertificazione, quella di cui parlo da tre anni e che ora sembrano scoprire
anche quelli che capiscono più di me, è anche questo.
Luca
Craia