lunedì 18 febbraio 2019

La politica dell’intimidazione e le rivoluzioni dal divano.


Stiamo assistendo da diversi anni a un progressivo decadimento dell’azione politica propriamente detta, intendendo per azione politica il modo stesso di muovere azioni, proposizioni, proposte nell’atto di governare o di controllare l'operato di chi governa, che diventa ogni giorno più preoccupante e pare andare nella direzione di una demolizione sostanziale del sistema democratico, laddove questo prevede la libertà di pensiero e di espressione dello stesso da parte dei cittadini, non tramite azioni violente come è tipico dei totalitarismi fin qui storicamente noti, ma per effetto di strumenti totalmente legali ma utilizzati a scopo politico e intimidatorio.
Mi spiego meglio e in parole più semplici: oggi si fa politica con le querele e le minacce di querela. Non si discute, non si argomenta, non esiste più un confronto democratico rispettoso dell’interlocutore anche se aspro, è finita ogni forma di dialettica. Nell’epoca dei social, dove ognuno ha in mano strumenti formidabili per esporre e condividere il proprio legittimo pensiero, quando questo non è gradito al potente o presunto tale, l’unico mezzo di contrasto sembra essere l’azione legale, quasi sempre temeraria e infondata, ma che comunque sortisce l’effetto, nella maggior parte dei casi, di tacitare o almeno smorzare la polemica.
Il meccanismo è semplice anche se non è noto a tutti, tanto che è uso pensare che, qualora si riceva una querela per diffamazione, quando è evidente che non ci sono i presupposti per la stessa, si possa andare comunque avanti senza timori. Non è così e vi spiego perché. Quando si riceve una querela, il querelato deve nominare un proprio difensore. Non può esimersi dal farlo. Se non ne ha uno di fiducia gli viene attribuito un legale d’ufficio che poi dovrà pagarsi comunque da solo a meno che non versi in condizioni di vera indigenza. Qualora, poi, come capita molto spesso, il procedimento si fermi per archiviazione, le spese legali per la difesa rimangono a carico del querelato a meno che questi non voglia a sua volta intraprendere un’azione legale per farsi risarcire, imbarcandosi in una causa civile che potrebbe durare anni. Non tutti possono permettersi di sostenere queste spese.
Immaginiamo un giornalista locale che lavora prendendo un compenso un tanto al pezzo, che non abbia un contratto di dipendenza diretta e che, quindi, non abbia una copertura da un punto di vista legale da parte del proprio editore. Quanto serenamente e liberamente potrà esprimere il proprio pensiero, sapendo che, se dice una sola parola fuori posto, rischia di prendersi una querela e, quindi, oltre a dover subire una spiacevolissima trafila giudiziaria, dovrà sobbarcarsi le spese legali per difendersi? Immaginiamo un blogger, che non ha editore, che non ha nessuno che lo sostenga, che faccia quello che fa per pura passione (e non per quei quattro spiccioli di pubblicità che arrivano, come i soliti noti amano dire confondendo chi scrive di petti di pollo all’arancio o di pizzi e chiffon con chi fa battaglie politiche), con quanta tranquillità potrà esprimere il proprio pensiero quando viene costantemente minacciato di azioni legali.
Tutto questo è ben noto a chi muove certi fili, e lo usa nella maniera più proficua, per bloccare e tacitare l’opposizione dell’opinione pubblica. A rischiare certamente sono quelli che si espongono, prima di tutto i giornalisti e i blogger, o coloro che cercano di uscire dal mondo virtuale in cui oggi è relegata la protesta per proporre azioni concrete. Certamente rischiano poco o niente gli utenti dei social, lasciati a urlare le loro invettive più o meno liberamente perché anche questo fa parte del sistema.
Già, perché i rivoluzionari con la qwerty, quelli che sono pronti a prendere la Bastiglia senza muoversi dal divano, sono contemplati, anzi, perfettamente integrati nel sistema di controllo della protesta. E questo semplicemente perché, finchè protestano dal divano, non vanno nelle piazze. E mi pare sia provato che, nelle piazze a protestare, almeno in Italia, ci vadano davvero in pochi. Ma protestare sui social è un’ottima autoassoluzione, un sistema consolatorio per sentirsi in pace con la coscienza e col mondo. Solo che il mondo non si cambia col telefonino.

Luca Craia