venerdì 5 ottobre 2018

Signore, io sono Irish. L’accoglienza pelosa del ventunesimo secolo


“Signore, io sono Irish, quello che non ha la biciletta”, recitava il testo della nota canzone dei New Trolls, scritta per loro da un giovanissimo Fabrizio De Andrè partendo da una poesia di Riccardo Mannerini. Un pezzo storico del progressive rock italiano con un significato profondissimo e toccante. Mi è tornata in mente l’altro giorno quando, per strada, andando al lavoro, ho incontrato uno dei tanti immigrati africani in bicicletta. Mi è venuto automatico il parallelo tra Irish, probabilmente egli stesso emigrato dall’Irlanda nella promettente America di un paio di secoli fa, e questi nuovi migranti del ventunesimo secolo.
Irish desiderava la bicicletta per andare in chiesa la domenica, e la chiedeva a Dio come regalo, come allegoria della mancanza di fede, certamente, ma a me interessa la raffigurazione estetica, interessa Irish a piedi, che desidera un mezzo per muoversi ma un lavoro ce l’ha. E Irish probabilmente ha un lavoro al limite dello schiavismo, dai Lancaster, a raccogliere cotone o chissà che altro, a spaccarsi la schiena, i suoi “reni non cantano”, dice la canzone. Ma Irish ha un’aspettativa, vive in un Paese nuovo, pieno di prospettive e di promesse da mantenere. Irish ha un futuro, per lui e per Ester, la sua donna, e i figli che verranno. Desidera la bicicletta, ma ha la possibilità di avere molto di più.
L’Irish che viene in Italia nel ventunesimo secolo ha la bicicletta. Gliela danno quelli che lo accolgono in nome di una solidarietà pelosa, fatta di soldi a fiumi, di guadagni più o meno leciti, di sistemi economici basati su questa povera gente a cui viene data una bicicletta e gli viene detto “vai a lavorare”. L’Irish di oggi va a lavorare, magari non dai Lancaster, ma molto spesso in situazioni molto simili a quelle in cui lavorava l’Irish di Mannerini. Ha la bicicletta, l’Irish moderno ma, al contrario dell’Irish cantato da De Scalzi, non ha aspettative, non ha futuro, non ha possibilità.
Il punto è questo: stiamo facendo venire in Italia gente disperata alla ricerca di un futuro ma non siamo in grado di darglielo. L’Italia non sta offrendo più un futuro nemmeno ai propri giovani, tantomeno alle persone mature, quelli che perdono il lavoro e devono riciclarsi, quelli che pagano una vita per una pensione da fame che vedono allontanarsi sempre di più, quelli che, se si ammalano, non possono curarsi e muoiono tra le grinfie di una sanità sempre più malata. All’Irish moderno non stiamo offrendo null’altro che una bicicletta e un lavoro da schiavo.
Tutto questo è ignobile, vergognoso. È più vergognoso di come potrebbero aver trattato Irish i Lancaster dell’America dell’800. Perché noi lo sappiamo che il nostro, di Irish, non ha futuro. Lo sappiamo, ma gli diamo la bicicletta e tanta solidarietà, tante parole ridondanti e gocciolanti di miele, ma il futuro non c’è, e Irish comincia a capirlo. E quando lo capirà saranno problemi per tutti.

Luca Craia