domenica 1 novembre 2015

Montegranaro triste panorama politico. E non ci ho capito niente.



Molti mi chiedono perché sono tanto incattivito contro l’amministrazione Mancini. Ora ve lo spiego o, almeno, provo a spiegarlo. Non ho votato Montegranaro Riparti alle ultime elezioni, ma speravo vincesse. Ci speravo perché ero convinto, e lo sono tuttora, che Montegranaro avesse bisogno di una nuova spinta, di una nuova mentalità, di un nuovo modo di amministrare. Pensavo che Montegranaro Riparti potesse essere l’inizio di questa svolta, per quanto ancora questo schieramento fosse legato ad antiche logiche di partito, a una politica comunque stantia. Venivamo da quattro anni e passa di amministrazione Gismondi e il mio buon amico Gastone non era riuscito a risolvere quasi nessuno dei problemi che attanagliano il nostro paese. Nei quattro anni di governo della città da parte di Gismondi mi sono battuto e l’ho contrastato ogni giorno, a testimoniarlo ci sono le mie pubblicazioni di allora che qualcuno si è scordato. Speravo, quindi, in un cambio di passo.
Non ho votato Mancini, sia chiaro. Ho votato Movimento 5 Stelle (e mia moglie ha votato Mariani, dopo averci ragionato insieme), perché, comunque, in linea di principio non ero d’accordo nell’impostazione data dallo schieramento che oggi governa Montegranaro. Ero preoccupato per questa strana commistione tra destra e sinistra, tra due culture fondamentalmente inconciliabili, per questo accordo che puzzava di spartizione di poteri piuttosto che di voglia di cambiamento. Però ci speravo.
Mi sono reso conto dopo pochissimo che le mie speranze erano vane. Me ne sono accorto quando Giacomo Beverati, assessore al centro storico, materia su cui mi batto ormai da decenni, mi venne a offrire di collaborare col Comune per la promozione turistica di Montegranaro insieme con l’Archeoclub che, fino ad allora e tuttora, tutto ha fatto meno che promozione turistica. Facendogli notare che la mia associazione ha fatto promozione turistica per anni da sola ottenendo risultati, lui mi rispose che, comunque, l’Archeoclub doveva entrare nella cosa perché loro avevano il nome. Capii (e con me i miei sodali, tanto che la decisione di tenercene fuori fu unanime) che le cose non miglioravano con la nuova amministrazione, anzi, sarebbero peggiorate, Così è stato. Beverati, al mio rifiuto di collaborare, mi rispose che avrebbe messo in campo il suo “peso istituzionale”. Ancora tremo. Dopo pochi mesi dovetti dire a Gismondi che non avrei mai creduto di doverlo rimpiangere.
Dicevo: ho votato Movimento 5 Stelle, e sapevo che il mio voto non avrebbe eletto il governo di Montegranaro. Ma mi piaceva il loro modo i porre le questioni, la buona cattiveria con cui proponevano soluzioni ai problemi. Oggi devo dire che, anche qui, colleziono una delusione. Il Movimento 5 Stelle si sta rivelando inadatto non solo al governo, cosa di cui molti lo accusano, ma persino ad una opposizione che possa portare a qualche frutto. Sono sostanzialmente proni al potere. Cercano di portare a casa il risultato, ad esempio del baratto amministrativo, e per farlo non si fanno problemi a scendere a patti con chi sta massacrando Montegranaro, cioè l’amministrazione Mancini. Salvo poi, incalzati, andare a parlare con l’altro lato dell’opposizione. Ma lo fanno senza convinzione.
La cosa più triste è che il Movimento 5 Stelle sta facendo più opposizione all’(altra) opposizione che al governo. Sono impegnatissimi nella dietrologia, nel cercare il colpevole, ma non si sforzano affatto di contrastare le azioni incredibilmente perniciose che Montegranaro Riparti sta attuando. Non li vedo, ad esempio, schierati a favore delle associazioni duramente attaccate dal Sindaco, anzi, quasi che si schierano contro (a parte una poco credibile presa di posizione di Pirro che viene, però, smentita quotidianamente sui social network da molti suoi seguaci, occupatissimi a contrastare quell’antipaticissimo Lucentini e quella rottura di scatole di Craia.
I Cinquestelle sono molto vicini, nei fatti, alla maggioranza di governo. Basti pensare, tanto per fare un altro esempio, alla loro candidatura per il consiglio di amministrazione della Farmacia Comunale, quell’Annamaria Vecchiola che, per storia familiare, è vicinissima a Ubaldi (il fratello è stato candidato nelle liste del vicesindaco) e nei fatti è strumento nella mani dell’amministrazione Mancini in quanto presidente dell’Archeoclub, associazione che dire schierata è dire poco. Come mai? Non avevano un candidato loro, indipendente e libero da legami col governo? Si accordano con Basso e Gaudenzi e poi fanno una mezza retromarcia, per salvare la faccia, coinvolgendo senza troppa convinzione Viviamo Montegranaro. E loro attivisti di picco, che partecipano a riunioni e confronti importanti, pubblicano sui loro profili Facebook invettive contro l’altro lato dell’opposizione, ma nemmeno una parola contro il governo del paese. Viene il dubbio che ne facciano il gioco. Speriamo di sbagliare.
Non ho votato Gismondi, ho votato 5 Stelle. Avrei voluto che vincesse la Mancini. La Mancini ha vinto e mi ha deluso immensamente. Quelli a cui ho dato il voto mi stanno deludendo ancora peggio. Non ho votato Gastone e non lo voterei nemmeno ora. Ma ora Gastone è all’opposizione e la sta facendo abbastanza bene. E lo sostengo in questo suo ruolo. Il Movimento 5 Stelle non sta facendo opposizione, sta facendo la spalla esterna alla maggioranza. Perché non lo so e non lo capisco, ma questo è quello che si vede. E Montegranaro è in guai seri.

Luca Craia


sabato 31 ottobre 2015

Buon Vicinato



Terè e Giuditta avevano abitato una di fronte all’altra per quasi quarant’anni. La prima era già lì quando Giuditta si sposò con Mario e andò a vivere in via Cavour, nella casa che era della zia zitella del marito, nel frattempo passata a miglior vita. Terè all’epoca era vedova di fresco, ancora giovane e considerabile una bella donna. Probabilmente fu per quello che Giuditta la prese subito in antipatia: bella, vedova e per niente timida. Mario era uomo di sangue e Giuditta lo sapeva. Così cominciò a crearsi delle storie in testa, tra suo marito e la dirimpettaia, che nella realtà probabilmente non erano mai accadute ma che venivano alimentate nella sua fantasia da qualche battutina maliziosa di Terè e dagli ammiccamenti malcelati di Mario. Fu così che cominciò una faida di piccoli dispetti che continuò per decenni e non cessò nemmeno quando Mario morì di infarto che era appena quarantenne.
Si parlavano, le due vicine. Si prestavano anche le cose: il sale, una cipolla, un pacco di farina. Sembravano perfettamente in regola con le regole del buon vicinato. Ma poi Giuditta buttava il sale nei vasi di fiori di Terè e Terè tirava la terra alle lenzuola stese di Giuditta. Terè insegnava al gatto a fare la pipì sul portone di Giuditta e Giuditta spazzava la strada e ammonticchiava lo sporco davanti a quello di Terè. E così via discorrendo conducevano una minuscola guerra di dispetti e di nervi che l’osservatore attento poteva percepire nonostante i sorrisi e le gentilezze di facciata tra le due. Non si arrivò mai a fatti più seri, solo piccole ripicche e poco più. Giuditta pensò più volte di avvelenare il gatto di Terè ma mai ebbe il coraggio di farlo, così come Terè sognava di dar fuoco alla casa di Giuditta con Giuditta dentro ma era soltanto un suo gioco mentale. 
E un gioco mentale faceva spesso, ultimamente, Giuditta prima di dormire: immaginava ogni sera un modo nuovo di ammazzare la vicina. Era solo un gioco, un balocco per il cervello, un sistema per prendere sonno. Ma i piani che sera dopo sera organizzava con la testa appoggiata sul cuscino erano dettagliati e precisi. E sempre molto crudeli. La faceva soffrire prima di morire la povera Terè. La legava e torturava. La faceva cadere in buche profonde. La chiudeva in una stanza e appiccava il fuoco. Aveva una gran fantasia nello sceneggiare per suo uso e consumo l’omicidio della dirimpettaia. E questo la rilassava parecchio. Faceva dei bei sonni dopo. Finchè non capitò che, un mattino, scoprì che Terè era morta sul serio.
Terè era morta di morte naturale. Non l’aveva certo ammazzata lei. Giuditta era abilissima nel fantasticare di omicidi ma non sarebbe mai stata capace di organizzarne uno vero. Ciononostante fin da subito, da quando si accorse del viavai in casa di Terè e chiese lumi ad un parente della stessa mentre usciva dalla porta di casa, un nipote che la morta era riuscita ad avvertire per telefono pochi istanti prima di tirare le cuoia, cominciò a montarle dentro un cupo senso di colpa. Immotivato, si intende. Giuditta non aveva torto un capello alla morta. Ma il fatto che per mesi aveva fantasticato sulla sua morte ora la turbava non poco.
Non pianse, Giuditta, per la morte di Terè. Ma andò al funerale e all’accompagno e assistette alla tumulazione finchè la bara non fu ben murata nel fornetto. Ciò però non servì a placare l’angoscia che provava. E quella notte non riuscì a dormire. Come chiudeva gli occhi vedeva il volto della vicina, un volto scuro, arrabbiato. E per casa sentiva rumori ovattati di ogni tipo.
La notte successiva non andò affatto meglio. Era inquieta più che mai e sentiva cigolii, scalpiccii, e un fastidioso grattare contro non sapeva bene che cosa. Il mattino dopo andò dal medico e gli chiese qualcosa per dormire. Il medico non era affatto propenso a darle tranquillanti, ma le prescrisse un blando calmante.
Giuditta lo prese prima di coricarsi e si addormentò dopo pochi minuti, vuoi per via del farmaco, vuoi perché non dormiva da due notti, vuoi perché anche l’effetto psicologico in questi casi conta. Ma si svegliò verso le quattro. E sentii grattare. Sotto il letto. Sentì nettissimo il rumore di unghie che grattavano il materasso. E ne sentì anche la pressione sotto la schiena. Rimase gelata, tanto da non essere capace di muoversi né di fare un fiato. Il rumore e la pressione cessarono dopo pochi minuti ma lei rimase immobile e con gli occhi sbarrati fino alla mattina.
La luce del sole la tranquillizzò e la convinse che quello era stato solo un sogno molto vivido, forse causato dallo stress e dall’effetto del farmaco. Decise che la notte successiva avrebbe fatto a meno delle gocce prescritte dal medico. Passò una giornata normale, fece spesa, pulì la casa, si occupò dei fiori, ma sempre con un senso di terrore latente che non le dava pace. La sera, quando si coricò, si ripropose che, se avesse di nuovo avvertito qualcosa di strano sotto il letto, si sarebbe fatta coraggio, avrebbe acceso la luce, sarebbe scesa dal letto e ci avrebbe guardato sotto.
Non dormì fino alle quattro, ma passò dalla veglia al dormiveglia di continuo. Alle quattro in punto – le segnava la radiosveglia – sentì grattare sotto il letto. Di primo acchito restò impietrita, ma si ricordò dei suoi propositi e accese la luce. Il grattare cessò. Scese dal letto con poca convinzione, si mise sulle ginocchia e guardò sotto il letto. Un’ombra sgusciò via veloce dalla parte opposta ma Giuditta fece bene in tempo a vedere cosa fosse: era il gatto di Terè. Come fosse entrato in casa non riusciva a capirlo né capiva dove fosse fuggito. Quando si fu ripresa dallo spavento cercò dappertutto ma della bestia non c’era traccia. La cosa la inquietò e tranquillizzò allo stesso tempo: anche se la presenza del gatto era strana e piuttosto spaventosa era pur sempre una spiegazione razionale a quello che aveva sentito e, quantomeno, escludeva robe di fantasmi e simili.
La notte successiva andò a dormire un po’ più rilassata ma con l’intento di acchiappare il gatto se si fosse ripresentato a disturbarle il sonno. Fu così che alle quattro in punto fu svegliata dall’ormai consueto grattare sotto il materasso. Non si scompose più di tanto e non accese la luce: voleva beccare il gatto e magari farlo fuori. Scese dal letto piano piano, si mise in ginocchio e si affacciò sotto il letto. Vide un’ombra, ma piuttosto grossa, non sembrava un gatto. Senza perdere di vista la sagoma allungò all’indietro un braccio per accendere la luce e, quando la lampadina illuminò parzialmente lo spazio tra il letto e il pavimento, vide il ghigno divertito di Terè che, contemporaneamente all’accensione della luce le gridò: “Cucù!”.
La trovarono dopo tre giorni, stesa accanto al letto. La trovarono perché la nipote la cercava. La trovarono con gli occhi aperti e un’espressione di terrore in volto. Ictus, dissero. La tumularono in un fornetto di fronte a quello di Terè.


Boicottiamo i centri commerciali



Prendo spunto dal quello che ha scritto una mia amica sulla sua bacheca di Facebook. Ilenia dice: “per un breve periodo ho avuto un negozio in Corso Vittorio Emanuele. Dalla chiusura, 3 anni fa, non sono ripassata spesso in quella via. L'altro ieri ho fatto un giro a piedi e sono rimasta sconvolta. Nessuna delle attività che conoscevo, tolte pochissime e storiche, sono ancora aperte. Ed oggi vengo pure a sapere che sta chiudendo La Bottega Dello Scolare, pochi metri più in là. Nessuno protegge i negozianti, però in quattro e quattro otto hanno tirato su un centro commerciale grosso quanto un quartiere, condannando a morte le attività del vecchio Civita center altrettanto velocemente. È così ora abbiamo centinaia di commessi sfruttati e mal pagati che tengono aperti i negozi 7 giorni su 7, una enorme struttura in mano ai cinesi ed un centro città in cui si respira aria di morte. Complimenti a chiunque abbia permesso questo scempio”.
Credo che dovremmo riflettere su queste parole perché sono la cruda realtà di molti, forse tutti, i centri abitati della nostra regione. Il proliferare dei centri commerciali sta uccidendo il commercio dei piccoli dettaglianti. Non è una questione di prezzi, perché non è vero che al centro commerciali si risparmia, anzi. È, invece, una questione culturale, ma di una cultura che ci viene indotta politicamente, con scelte ben precise che portano a prediligere l’investimento in questi enormi scatoloni di cemento facendo morire i centri delle città. Fermo sta morendo, Macerata non sta meglio, Civitanova, città più vivace della zona, vive un’agonia che la porterà alla fine. Il tutto perché si vuole portare la gente a vivere il proprio tempo libero inscatolata nel centri commerciali.
Tutti inquadrati, tutti pilotati abilmente con scelte di marketing e psicologia dell’acquisto che hanno basi scientifiche ben precise: la musica di sottofondo, i colori, la disposizione dei negozi, tutto è studiato per indurre il cliente all’acquisto emozionale. Intanto le città diventano città fantasma, i commercianti chiudono le loro attività e la vita all’interno dei centri abitati si spegne.
Ilenia parla anche dei commessi, categoria di lavorati tra i più sfruttati, con orari impossibili, fine settimana lavorativi, stipendi scandalosi. Si sta creando una nuova schiavitù, col placet delle amministrazioni locali e dello Stato centrale che non si pone nemmeno il problema.
È ovvio che serve una legislazione che impedisca il proliferare di questi mostri commerciali. In assenza di questa, le amministrazioni locali sono portate ad autorizzarne l’apertura per l’introito economico, tralasciando l’impatto sociale che questo comporta. È il caso di Civitanova ma anche di Fermo e Macerata. E tutto questo, le scelte di queste scellerate amministrazioni comunali, coinvolge poi e loro malgrado le cittadine e i paesini dell’hinterland dove il commercio tradizionale non vive meglio che in città. Ma la politica non se ne occupa.
Credo che i cittadini di buon senso e buona volontà debbano ribellarsi. Il centro commerciale è comodo, lo so, ma si può vivere anche senza, ed è molto più piacevole fare acquisti in un negozio tradizionale. Ed è anche più conveniente. Allora ribelliamoci. Boicottiamo i centro commerciali. Cerchiamo di non andarci più o, almeno, il minimo indispensabile. Rivolgiamoci al negoziante di città, quello che ha la vetrina sulla strada e non lungo il corridoio di un posto irreale e surreale. Facciamo la spesa nei supermercati tradizionali, quelli del nostro paese. Prediligiamo il rapporto col negoziante piuttosto che la corsa col carrello tra scaffali ammiccanti e studiati per farci comprare cose che non ci servono. Boicottiamo il centro commerciale. Da ora.

Luca Craia

venerdì 30 ottobre 2015

Che ne sarà del Novelli?


La notizia più triste della giornata è che l’intervento di restauro per il primo piano del Municipio e, quindi, del Teatro Novelli è stato ulteriormente procrastinato, nonostante in campagna elettorale si era parlato di priorità per questo intervento. Ricordo benissimo l’incontro che avemmo durante la campagna elettorale nella sede di Arkeo con i rappresentanti delle forze politiche in lizza per le elezioni, dove era presente anche l’assessore ai lavori pubblici Aronne Perugini che prese l’impegno di intervenire con urgenze, e lo scrisse anche nel programma elettorale. Ciononostante oggi apprendiamo che nemmeno nel 2016 se ne parlerà, preferendo portare avanti il progetto di abbellimento di viale Gramsci, un progetto che non pare né urgente né lungimirante, visto che la tenuta della scarpata è ancora tutta da dimostrare.
La ristrutturazione del palazzo comunale, invece, era e rimane urgentissima. L’ultima volta che sono entrato nel teatro Novelli c’era il commissario e ci andai perché questi mi chiese di effettuare un sopralluogo con l’ingegnere Alessandrini e la nostra collaboratrice Maria Letizia Vallesi, restauratrice di pitture e interni. La situazione già allora era gravissima, con infiltrazioni d’acqua sulla volta in camorcanna già allora piuttosto gravi. Non oso pensare come possa essere lo stato attuale delle tempere del teatro, ora che sono passati più di due anni.
Leggere, quindi, che la volontà è quella di trasformare l’ex teatro in sala del Consiglio Comunale fa sorridere amaramente: se i tempi sono questi faranno il Consiglio Comunale all’aperto, altro che nel teatro. Il tetto verrà giù e, con esso, gli splendidi decori del teatro ottocentesco. Parole al vento, promesse sprecate.

Luca Craia