venerdì 9 settembre 2016

Teo l'Americano



Facevo collezione di francobolli. Mia mamma era ragioniera in un calzaturificio e mi metteva da parte le buste della corrispondenza che riceveva. Così iniziai a mettere da parte i francobolli del periodo. Evidentemente era un passatempo di moda all’epoca per cui era facile trovare altri ragazzi collezionisti disposti allo scambio dei doppioni. Così la collezione cresceva. Tramite conoscenze ero entrato in contatto epistolare con un signore italiano, Renato, che aveva fatto la campagna di Russia e si era sposato in Bulgaria non tornando più in Italia. Renato mi mandava di sua sponte e con piacere francobolli dell’Unione Sovietica, per la qual cosa rischiava anche parecchio essendo vietato oltre cortina quel tipo di attività. Grazie a lui ora mi ritrovo un bell’album pieno di splendidi francobolli dell’URSS che hanno anche un discreto valore.
A Montegranaro se parlavi di filatelia non potevi prescindere da Teo l’americano, il marito di Emilia Senzacqua. Francamente non ricordo come finii a casa di Teo, fatto sta che ci finii. E quella fu una delle esperienze fondamentali della mia vita. Matteo, Teo per gli amici, era un omone col pizzo canuto, polacco trapiantato negli USA, che s’era trovato appunto in America giusto giusto per fare la Seconda Guerra Mondiale. Era imbarcato nel Pacifico come cuoco quando il suo incrociatore era stato centrato e affondato da un siluro giapponese. Il suo racconto proponeva il siluro che attraversava tutta la cucina della nave portando con se la sua tibia e il suo perone, lasciandolo con un brandello di carne al posto della parte inferiore della gamba destra. La chirurgia americana dell’epoca era evidentemente molto più avanti di quella italiana anche contemporanea in quanto gli ricostruirono la gamba intorno ad un tubo di metallo. Certo non correva i cento metri ma claudicante camminava per casa.
Era un uomo burbero come pochi, gigantesco, con quell’accento misto tra anglosassone e slavo e la voce cavernosa. Diciamo che la prima impressione fu terrificante. Poi lo conobbi e lo amai, molto, come si può amare un nonno. Teo cucinava da dio, cose strane che io non avevo mai neanche sentito nominare. A quell’epoca, parlo della fine degli anni ’70, sfido chiunque ad aver saputo cos’era il ketchup. A casa sua mangiai bacon and eggs e mamma rabbrividì solo a sentire che cos’era, bistecche alla Bismarck, innumerevoli insalate con salse che andavano dalla maionese al tabasco. Diciamo che, se oggi amo tanto stare ai fornelli, lo devo probabilmente a lui.
Collezionava francobolli e monete. Aveva una stanza, di fronte alla cucina, tappezzata di scaffali dove teneva le bustine dei francobolli. Infatti non usava gli album ma li teneva sciolti in piccole buste di carta oleata. E me ne ha regalati parecchi, che aveva doppi, ma per me erano davvero un tesoro: francobolli del Regno d’Italia, della Germania pre-nazista con sovrastampato il valore centuplicato durante la depressione, dei vari paesi europei prima della guerra, degli USA e dell’America latina. Un tesoretto, se non da un punto di vista economico, sicuramente da quello storico. Per non parlare di quello affettivo.
Con Teo iniziai ad interessarmi di calcio. Fino allora non me ne fregava niente e quando i miei amici o i compagni di scuola si accapigliavano per il pallone la cosa mi lasciava del tutto indifferente. Ma era il 1978 e c’erano i mondiali in Argentina. Premesso che, quando andavo da lui ci rimanevo tutta la mattinata o tutto il pomeriggio, durante i mondiali, se giocava la Polonia (e quell’anno giocava, hai voglia se giocava) tutti zitti davanti alla TV. All’inizio mi annoiavo e non capivo il gioco, così lui pazientemente mi spiegava le azioni e le regole, tanto che mi appassionai. Ci siamo visti insieme tutti le partite dei mondiali della Polonia e dell’Italia, lui seduto sulla sua poltrona di fronte alla finestra che dava sulla piazzetta dell’erbe ed io appoggiato sul tavolo dal piano di vetro che racchiudeva banconote di tutto il mondo.
Teo morì negli anni ottanta. La sua casa negli anni 2000. Ora c’è una piazzetta al suo posto. Carina. Ma manca un pezzo della storia di Montegranaro e anche un pezzo della mia storia personale. Lì nessuno appenderà a dicembre la grande slitta di Babbo Natale con tanto di renne tutta luminosa e tanto americana.

Luca Craia

giovedì 8 settembre 2016

Referendum - Il Comitato per il no montegranarese fatto dai traditori di Gismondi tira per il sì?



Oltre un mese fa, in maniera del tutto imprevista, giunse la notizia della formazione a Montegranaro di un comitato per il no al referendum costituzionale. La notizia mi lasciò stupito, in quanto credo di essere abbastanza sensibile ai movimenti politici nostrani, e non mi aspettavo che, senza che vi fosse stato alcuna azione nella ricerca di coinvolgimenti tra forze politiche e sociali, nascesse un comitato referendario. Certo, la sua costituzione andrebbe salutata come fatto positivo perché credo sia indispensabile cercare di contrastare in tutti i modi possibili lo strapotere mediatico del Governo. Normalmente, però, un comitato di questo genere vede il coinvolgimento di tutte le forze in campo; ci sono consultazioni, incontri, discorsi preliminari. In questo caso, invece, se lo sono fatto in casa.
E a farselo, guarda guarda, ci sono vecchie conoscenze della politica. Mi riferisco, in particolare, a Demis Ranalli, Niccolò Venanzi e nientepopodimeno che il logorroico Jonata Pagliaricci, detentore del record assoluto e imbattuto di aver pronunciato meno parole in Consiglio Comunale. Si tratta di tre dei quattro “traditori” che fecero cadere la giunta Gismondi, (Gianni Basso lo colloco a parte, ne riparleremo) quelli che, col loro gesto, propiziarono il commissariamento del Comune di Montegranaro e la successiva vittoria dello schieramento che governa oggi. Col senno di poi, i migliori amici della Mancini, quindi del PD.
Ora, se questi sono amici del PD, possono votare e far votare no al referendum? Qualcuno potrebbe dire che possono, che ognuno pensa con la propria testa nella singola decisione. Certo, ma questi tre non ragionarono con la loro testa allora e temo non lo stiano facendo neanche ora.
Non sappiamo la data certa in cui voteremo la riforma costituzionale che, qualora vincesse il sì, condannerebbe l’Italia alla fine della democrazia e a diventare una colonia straniera preda dei peggiori lestofanti economici e politici del globo. Sappiamo però che non manca molto. Un comitato, soprattutto nel nostro caso in cui si lotta contro tutto il sistema mediatico ufficiale (e non) d’Italia, dovrebbe prendere immediate iniziative per promuovere il proprio punto di vista. Invece, dopo un mese e mezzo e l’unica comparsata sui giornali per annunciarne la nascita, il comitatino montegranarese non dà segni di vita.
Come diceva il buon Andreotti, che di certi giochetti era maestro, a pensar male si fa peccato ma di solito ci si azzecca. Ora, io non voglio sopravvalutare le capacità strategiche di questi tre elementi, ma potrebbe esserci qualcuno che manovra dietro, così come c’era all’epoca della sfiducia a Gismondi. E sento puzza di giochetto democristiano: fondiamo il comitato, così gli altri non lo fanno, e lo lasciamo lì, a sonnecchiare. Diventa un comitato per il sì travestito da comitato per il no. Fantapolitica? Forse, ma non c’è più da stupirsi di nulla. Con certi personaggi specialmente.

Luca Craia

mercoledì 7 settembre 2016

La badante



Sta lì seduta sulla panchina dei giardini, tutta sola, col telefono in mano a mandare messaggi Whatsapp a casa, quella casa lontana anni luce, anni tempo, lingue diverse, treni e aerei da prendere, soldi da mettere da parte per far studiare il figlio, per curare la vecchia madre, per mantenere il marito senza lavoro, per permettersi un breve viaggio di ritorno.
Una solitudine fatta di amiche sole come lei, con le quali ridere per non piangere e condividere panchine e sigarette, bicchieri di liquore forte e malinconia. Una solitudine fatta di giornate lavorative che arrivano fino alla notte, di sonni lavorativi e senza sogni o con sogni da dimenticare prima del risveglio. Nostalgie strazianti ignorate tra le faccende domestiche e le cure alla persona affidata, lacrime ricacciate indietro e una durezza di cuore imposta e necessaria che non è mai dura abbastanza.
Quello sguardo fisso sullo schermo, in attesa della risposta all’ultimo messaggio, quello schermo che apre una porta verso l’est, quel Facebook che mostra le immagini della sua vita lontana che non è più la sua vita perché lei è qui, su quella panchina, a respirare un sorso di aria pulita prima di rientrare in quelle stanze odorose di medicine, di chiuso e di malattia.
L’occhio lucido, forse la lacrima repressa di una donna che non può permettersi la tristezza, solo una vaga malinconia di fondo, quando il telefono vibra e appaiono quelle parole, il saluto di un figlio, l’abbraccio virtuale di un marito, ad annullare quei chilometri cicatrizzati nel cuore.


Luca Craia