Il tempo ha la cattiva abitudine di non fermarsi mai,
nel suo scorrere lento ma impetuoso, uno scorrere che porta via cose ma che ne
lascia altre immutate, come se le lancette non girassero più nel quadrante.
Eppure le lancette girano, passano i giorni, i mesi e gli anni. E ci si
ritrova, per esempio, alla fine di giugno dell’anno del Signore 2018 e ci si
accorge, guardandosi intorno, che sono passati ormai quasi due anni da quel
maledetto giorno in cui la terra ha deciso di scuotere tutto e di far cadere
case, chiese, vite.
Sarebbe tempo di fare dei bilanci, sarebbe tempo di fare
il punto. Invece quello che si nota è soltanto il silenzio. Il silenzio dei
media, che non parlano più della questione terremoto ormai da mesi se non per
una visita spot del nuovo Presidente del Consiglio o per la brutta storia dei
furbetti del CAS, molto utile per spostare l’attenzione dai problemi veri e far
apparire i terremotati un branco di furfantelli.
Eppure i problemi sono tutti lì, come buona parte
delle macerie, come le case puntellate alla bell’e meglio nelle zone rosse e
lasciate a marcire e a tirarsi giù le case buone. Quello che non c’è più è la
comunità cittadina che, salvo casi eccezionali, è stata sbriciolata non dal
terremoto ma dalla gestione o, meglio, non gestione dell’emergenza. Si direbbe,
e lo dico con una certa convinzione, che ci si sia impegnati per far sì che la
vera vittima del sisma fosse l’aggregazione sociale, la coesione delle persone,
il senso di appartenenza. I ritardi, i malfunzionamenti, le vessazioni si sono
coniugati con l’informazione distorta, le tifoserie politiche, i personaggi
squallidi mandati a dire che va tutto bene, che non ci si deve lamentare.
Il risultato è il silenzio, quello che dicevamo
prima, dei mass media, ma soprattutto quello dei terremotati stessi. Ora si
parla di deltaplani, ci si accapiglia un’area da risanare, per capire se
Risorgimarche sia utile ai terremotati o soltanto la solita propaganda. Ma del
fatto che, dopo due anni, le zone rosse siano ancora rosse, chiuse a chiave
come la possibilità di far ripartire l’economia turistica, come le case dei
villeggianti che facevano campare questi paesini, come le porte delle chiese,
degli oratori, dei circoli, dei luoghi in cui si ritrovava la comunità, di questo
non si parla quasi più. Si bisbiglia qualcosa, subito zittiti dal personaggio
politicamente schierato di turno o da notizie più utili a offuscare la vista.
Zitti zitti, il silenzio è d’oro.
Luca Craia