giovedì 21 giugno 2018

Scorre il tempo e non cambia nulla. Di terremoto non si parla più.


Il tempo ha la cattiva abitudine di non fermarsi mai, nel suo scorrere lento ma impetuoso, uno scorrere che porta via cose ma che ne lascia altre immutate, come se le lancette non girassero più nel quadrante. Eppure le lancette girano, passano i giorni, i mesi e gli anni. E ci si ritrova, per esempio, alla fine di giugno dell’anno del Signore 2018 e ci si accorge, guardandosi intorno, che sono passati ormai quasi due anni da quel maledetto giorno in cui la terra ha deciso di scuotere tutto e di far cadere case, chiese, vite.
Sarebbe tempo di fare dei bilanci, sarebbe tempo di fare il punto. Invece quello che si nota è soltanto il silenzio. Il silenzio dei media, che non parlano più della questione terremoto ormai da mesi se non per una visita spot del nuovo Presidente del Consiglio o per la brutta storia dei furbetti del CAS, molto utile per spostare l’attenzione dai problemi veri e far apparire i terremotati un branco di furfantelli.
Eppure i problemi sono tutti lì, come buona parte delle macerie, come le case puntellate alla bell’e meglio nelle zone rosse e lasciate a marcire e a tirarsi giù le case buone. Quello che non c’è più è la comunità cittadina che, salvo casi eccezionali, è stata sbriciolata non dal terremoto ma dalla gestione o, meglio, non gestione dell’emergenza. Si direbbe, e lo dico con una certa convinzione, che ci si sia impegnati per far sì che la vera vittima del sisma fosse l’aggregazione sociale, la coesione delle persone, il senso di appartenenza. I ritardi, i malfunzionamenti, le vessazioni si sono coniugati con l’informazione distorta, le tifoserie politiche, i personaggi squallidi mandati a dire che va tutto bene, che non ci si deve lamentare.
Il risultato è il silenzio, quello che dicevamo prima, dei mass media, ma soprattutto quello dei terremotati stessi. Ora si parla di deltaplani, ci si accapiglia un’area da risanare, per capire se Risorgimarche sia utile ai terremotati o soltanto la solita propaganda. Ma del fatto che, dopo due anni, le zone rosse siano ancora rosse, chiuse a chiave come la possibilità di far ripartire l’economia turistica, come le case dei villeggianti che facevano campare questi paesini, come le porte delle chiese, degli oratori, dei circoli, dei luoghi in cui si ritrovava la comunità, di questo non si parla quasi più. Si bisbiglia qualcosa, subito zittiti dal personaggio politicamente schierato di turno o da notizie più utili a offuscare la vista. Zitti zitti, il silenzio è d’oro.

Luca Craia