sabato 3 agosto 2019

Made in Italy. Cos’è (di Giuseppe Iorio).


Sono orgoglioso di ospitare sul mio blog, grazie all'interessamento dell'amico Guido Vergari, un pezzo molto interessante di Giuseppe Iorio. Buona lettura. 

 
Un concetto semplice, palese. Una produzione per dirsi italiana deve essere realizzata in Italia. Un’idea non astratta che tutti noi possiamo percepire e intuire con estrema facilità, e proprio per questo resta un dato di fatto, quasi un postulato. Perché mai un capo d’abbigliamento che certa gente è disposta a pagare qualche migliaio d’euro non debba essere prodotto qui da noi, sembra quasi incomprensibile. E ci può stare il prezzo, perché se c’è chi compra, c’è chi vende e di conseguenza dovrebbe godere del beneficio anche chi ci lavora; nel nostro caso, chi le cose le fa, le produce, con impegno e  sacrificio, e non solo chi le concepisce. Eppure qualcuno non la pensa così! Ma chi? Forse qualche contraffattore cronico, magari una lobby di commercianti senza scrupoli, oppure un avventuriero a cui piace barare…. No! Non è proprio esattamente in questo modo che stanno le cose.
E non serve armarsi di pala e piccone per andarsene a scavare attorno all’albero delle monete d’oro, quello di Pinocchio, del Gatto e la Volpe,  cercando una risposta che sia plausibile; tantomeno bisogna pendere dalle labbra di qualche economista, o di certi “politici”, o di  giornalisti prezzolati, edotti sull’argomento a modo loro, o meglio sarebbe scrivere “indotti”, che quotidianamente, al soldo di soggetti che non hanno altro scopo nella vita se non accrescere patrimoni a discapito di tutto e tutti, eludono quotidianamente il solo vero problema che sta alla base di ogni malessere e che sta trascinando il nostro Bel Paese nel baratro: il lavoro. Quello vero. Quello che puoi “toccare”… La risposta è semplice; paradossalmente semplice, perché i “delocalizzatori”, quelli che producono beni di lusso all’estero, sono proprio loro, i creativi del “Made in italy”, gli esponenti più celebri, celebrati e stimati dell’eccellenza italiana. I baroni del lusso, i chirurghi del prêt-à-porter, capaci d’estrarre tradizione e conoscenza per produrre disagio, indigenza e disoccupazione, dopo aver ricucito con cura le ferite.  I maghi del prodotto “che te lo vendo a mille e me lo faccio costare cinquanta”, pure se devo spremere povertà e miseria in giro per il mondo; senza scrupoli e senza confini, violando diritti e volando qua e là comodamente nella cabina di un A380 o di un Falcon privato con la scusa della globalizzazione. Ne conosciamo i nomi, ad uno ad uno, le loro storie, gli imbrogli, le strategie, le ricchezze e i fatturati.
Alla fine, viaggiare alla ricerca di posti sperduti dove poter grattare qualche manciata d’euro per “ottimizzare” i costi di produzione; alla fine, genera esperienza. Ma in fondo, l’esperienza è fatta di ricordi, belli e brutti. I secondi, nel caso di chi prende coscienza di un sistema corrotto e corrosivo, sono di gran lunga più numerosi dei primi. Però c’è un lato positivo in tutto questo: la miseria, le condizioni spesso disumane di gente sfruttata per pochi euro al mese, possono almeno provocare una reazione. Scrivere. Parlare. Dire la verità, e spartire quei ricordi, anche se non è facile. È facile entrare nel sottotetto di casa e frugare in uno scatolone pieno di foto e vecchie cassette vhs, alla ricerca di un momento difficile da piazzare nel tempo. Poi, all’improvviso trovi quello che stavi cercando, e allora lo condividi, magari portando quella vecchia foto a qualcuno; a tuo figlio, che nel frattempo sta diventando un uomo e ti guarda in modo strano, forse perché intuisce che in quella spasmodica ricerca di un ricordo, stai seriamente cominciando ad invecchiare. Tutt’altra cosa, invece, è spostare un’idea, un concetto, nella testa di chi si cura solo del profitto nonostante sia già ricchissimo. È difficilissimo; perché, forse, è malato.
Certi argomenti si trattano con un consueto malumore. Tutto va alla malora, la crisi è inarrestabile, gli sciacalli del “Made in Italy” producono solo miseria e i pochi che si arricchiscono lo fanno a discapito di tutti… E tutti siamo noi.
Sventuratamente è tutto vero e, francamente, non è facile trovare un altro modo per esprimere la delusione e la rabbia legate al fatto che le eccellenze del settore Moda – Lusso, e non solo, non provino neanche a generare un minimo di ricchezza condivisibile da una fascia più ampia della popolazione, almeno quella che ci lavora o meglio, mi correggo, che se le cose andassero per il verso giusto potrebbe lavorarci.
Sarebbe bello poter trattare l’argomento in modo differente. Nemmeno invertendo certi canoni, lasciando spazio a certe ouverture traboccanti di presupposti catastrofici, e sarebbe altrettanto bello sbattere in faccia a chi sta massacrando il nostro Paese esempi positivi, sani, che sanno di buono. E ce ne sono di persone, imprenditori veri, che nonostante tutto riescono ad associare etica e lavoro; semplicemente curandosi degli altri, della gente che gravita attorno al piccolo universo che loro stessi hanno creato e che sta alla base di tutto, della crescita e del successo. Semplicemente. Dignitosamente.
Purtroppo, con azioni mediatiche, vengono soffocati dai più, da quelli che contano veramente e che al pari di certi politici di lungo corso preferiscono stare nell’ombra o defilarsi quando hanno a che fare con la verità. Abili manipolatori d’opinioni, lasciano che certi argomenti siano relegati al basso rango di stupide dicerie: pettegolezzi appunto, perciò disertano ogni occasione. Nel frattempo, magari, se ne stanno a controllare in Turchia che una camicia da quattrocento euro sia confezionata alla perfezione in cambio di una cassetta di patate – al mercato la cassetta costa 6/7 euro – o a Prato, da qualche cinese che per pochi spiccioli confeziona borse rivendute a duemila e passa. Scompaiono, diventano invisibili per poi riapparire da abili illusionisti, solenni, lapidari, religiosi, su di una passerella da qualche parte nel Mondo.
Perciò, è da stupidi ostinarsi a sconfinare in quel vecchio positivismo di strada, tanto caro a chi fa gossip e a chi distorce la realtà ostentando un mondo fatto di ristoranti sempre pieni giorno e notte, di strade affollate da gente col portafoglio carico, di negozi tracimanti di clienti che quasi non ce la fanno a tener su borse e pacchi! Di auto di grossa cilindrata vendute al pari delle utilitarie e che scorrazzano per le carreggiate delle nostre strade e autostrade. Il tutto senza porsi una banale domanda: ma dov’è che si vedono queste cose e soprattutto chi, e con “quale tipo” di denaro può permettersele? Dov’è che i ristoranti sono pieni di persone che spendono una valanga di soldi in auto e vestiti? A Roma… A Milano, forse. Be’, si. Da quelle parti, se non te ne vai in giro per le stazioni e cerchi di startene nel perimetro off-limits e on-control del centro del centro ma veramente centro di città, la realtà magari può anche avvicinarsi un po’ al concetto di prosperità che lava la coscienza di qualcuno e incrementa la crescita di un’illusione. Questa scenografia di vita quotidiana non la vedevi e non la vedi nel restante 80% d’Italia. Nelle città minori, nei posti di provincia, nei lunghi periodi morti dell’anno, quando per strada non c’è un cane e i titolari di piccole attività se ne stanno davanti all’entrata dei loro negozi nell’attesa che qualcuno passi, se passa, e che magari si decida a spendere una manciata d’euro. Sono quei posti, quei piccoli distretti artigianali prima sfruttati e poi abbandonati la vera chiave di lettura di una crisi che forse non c’è mai stata, o che almeno si poteva evitare se a decidere strategie e a ridisegnare la mappa di questa “nuova” Italia, non fossero stati abili e avidi architetti.

Giuseppe Iorio



Giuseppe Iorio studia a Parigi, all’École de mode. Inizia a lavorare per Moncler, Vuitton, Versace, Dolce & Gabbana e altri. Non frequenta il mondo delle passerelle, ma le fabbriche delocalizzate di Europa dell’Est e Africa. Nel 2014 contatta la redazione di Report e li porta in Transnistria, dove inizia anche questa cronaca senza filtri, amara e dolorosa di come funziona davvero il fashion world italiano.


venerdì 2 agosto 2019

TRIBUTI COMUNALI : C’È CHI PAGA E CHI NON PAGA (E QUESTI ULTIMI PURTROPPO NE SONO TANTI)


Comunicato integrale del gruppo Montegranaro Tra La Gente

Consiglio comunale infuocato quello del 30 luglio scorso, con 35 gradi dentro Palazzo Francescani e toni accesi tra consiglieri di maggioranza ed opposizione.
Tema del contendere gli assestamenti di bilancio che passa per la verifica degli equilibri dei conti per capire se gli stessi sono in ordine : a dispetto delle rassicurazioni fornite dall’Assessore Ubaldi circa la loro bontà - e del tanto strombazzato risanamento del bilancio - problemi ve ne sono ed anche seri.
Il Revisore dei Conti come pure la Responsabile del Servizio Finanziario nelle loro relazioni hanno fortemente evidenziato una serie di criticità con l’invito a “…porre in essere tutte le azioni utili al recupero dei crediti giacenti” ed anche “…potenziare ed accelerare le procedure di riscossione dei crediti,….caratterizzati da basse percentuali di incasso” : la situazione è brutta davvero visto che vi sono, ad oggi, ancora da riscuotere oltre 3,5 milioni di tributi di vecchie annualità che, probabilmente, non si riscuoteranno più o quasi.
Vero è che è stato accantonato un fondo di oltre 3,1 milioni ma questo è stato fatto togliendo spazio a servizi e risorse che sarebbero potute andare a beneficio dei cittadini, soprattutto a quelli che i tributi li pagano ed anche profumatamente visto che le aliquote delle imposte comunali applicate a Montegranaro, da cinque anni a questa parte, sono le massime possibili.
Oggi nonostante ciò il dato delle morosità è importante e ci induce, oltra a condividere le serie preoccupazioni del revisore e del responsabile del servizio finanziario, a delle ulteriori considerazioni : a Montegranaro c’è chi i tributi li paga e chi non li paga, tuttavia chi paga lo fa a caro prezzo e soprattutto lo fa per due.
Se dividessimo questa mole enorme di 3,5 milioni di tributi non riscossi tra le famiglie della città, avremo che ciascuna famiglia si trova a pagare circa 700 euro di tributi in più perché alcuni cittadini i tributi non li pagano proprio.
Ricordiamo, senza voler fare polemica, che il problema dei tanti vituperati debiti fuori bilancio, ha rappresentato un esborso, spalmato in 5 anni di consiliatura, di complessivi 1,1 milioni : questo che rappresentiamo è un problema tre volte più grande.
Non ci sembra poco.
La parola ora all’Assessore : quali azioni verranno prese per rimuovere questa diseguaglianza e quali misure per contrastare questa grande evasione ?

Gruppo Consiliare Montegranaro Tra La Gente

San Francesco chiusa è una sciagura per il centro storico di Montegranaro.


La chiesa è fragile, è noto. Ha subito diversi crolli, nei secoli, probabilmente proprio per la conformazione geologica del terreno su cui sorge. È quindi logico avere la massima attenzione, specie dopo il terremoto del 2016 che ha causato danni leggeri, ma comunque danni che ci sono e vanno sistemati e che, comunque, consigliano prudenza nel rendere il tempio accessibile.
Per questo motivo San Francesco, la Pievania, la chiesa centrale, la principale, la sede della parrocchia del SS.Salvatore e della comunità ecclesiastica montegranarese, è chiusa ormai da tre lunghissimi anni. Dicevamo che danni enormi non ci sono, ma nemmeno leggerissimi e, vista la storia dell’edificio, è bene avere cautela. Quindi, da un punto di vista prudenziale, è giusto che sia così, tanto più che le esigenze parrocchiali possono essere sopperite dalle altre chiese, compresa SS.Filippo e Giacomo provvidenzialmente ristrutturata pochi mesi prima del sisma (altrimenti l’avremmo persa).
Ma una chiesa non è soltanto un tempio religioso. Una chiesa svolge una funzione sociale importante, è un punto di riferimento fisico, un polo di aggregazione, è il simbolo di una comunità al di là della fede e del credo. Per questo, la Pievania chiusa da così tanto tempo è un’autentica sciagura per Montegranaro, in particolare per il suo centro storico.
Una chiesa aperta richiama i fedeli alla messa, la messa della domenica, frequentatissima e momento forse unico in cui il centro storico di Montegranaro era davvero vivo. Il catechismo, le attività parrocchiali, ma anche la fruizione singola, il momento di raccoglimento, senza trascurare la possibilità per eventuali turisti e visitatori di entrare in chiesa semplicemente per vederla. Poi c’è il lato umorale: un portone chiuso è quanto di più deprimente, respingente, allontanante si possa pensare. La piazza di Montegranaro è un trionfo di portoni chiusi, specie nei giorni di festa. E quello della chiesa è il più brutto a vedersi.
Pare che tutto sia fermo perché è ferma la ricostruzione post-sisma e la Curia attende di sapere come muoversi per riparare i danni del terremoto. Attende da tre anni come tutti i terremotati. E anche il centro storico di Montegranaro attende, perdendo ogni domenica che passa la speranza.  Perché la gente, poi, si abitua a non frequentare e, una volta abituata, è fatta. E non frequentando più la chiesa non si frequenta più la piazza. La piazza muore, il centro muore e, pensa un po’, muore tutto il paese, anche se non sembra.

Luca Craia