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domenica 21 febbraio 2016

Montegranaro e le grotte. Si va avanti e si pensa al turismo



Ottimo successo di pubblico per la presentazione del volume Montegranaro Sotterranea che racchiude il resoconto della prima parte delle esplorazioni degli ipogei montegranaresi effettuate da Arkeo con la collaborazione de Il Labirinto e del Gruppo Speleologico Cavità Artificiali del CAI di Fermo. Venerdì sera l’oratorio di San Giovanni Battista era gremito di montegranaresi curiosi e di appassionati di storia e archeologia giunti da tutto il Fermano per ascoltare i relatori del progetto, il sottoscritto, Dino Gazzani e Massimo Spagnoli, coadiuvati dal preziosissimo Simone Perticarini.
Il pubblico ha espresso grande apprezzamento per il lavoro svolto e ha incoraggiato gli attori di questo progetto nell’andare avanti e proseguire nella mappatura del sottosuolo. In effetti si è giunti solo a metà dell’obiettivo prefissato nel 2011 e ancora molto c’è da fare.
Apprezzamenti anche dal Sindaco Ediana Mancini che ha dimostrato grande interesse per quanto scoperto e dall’assessore al turismo, centro storico e cultura Giacomo Beverati che si ha colto positivamente l’invito a valutare lo sfruttamento turistico delle grotte sottostanti piazza Mazzini venuto dal sottoscritto. Una serata piacevole, interessante, di grande soddisfazione per gli organizzatori, che ha segnato un punto che debba essere la tappa intermedia di un viaggio che è ancora lungo fino alla meta.

Luca Craia

venerdì 24 aprile 2015

Grotte allagate ma non pericolose



A maggior precisazione di quanto riportato dall’articolo odierno del Corriere Adriatico, Arkeo e Il Labirinto ritengono che la presenza di acqua, per quanto cospicua, all’interno dell’ipogeo di piazza Mazzini non desti, almeno al momento, preoccupazioni circa la staticità degli edifici e della piazza stessa. Ricordiamo che l’ipogeo insiste solo parzialmente al di sotto dei palazzi mentre si estende nella sua quasi totalità sotto la piazza stessa. La presenza di acqua è più o meno costante e potrebbe comportare problemi strutturali solo nel lunghissimo periodo.
L’invito che le nostre associazioni rivolgono al Comune è di intervenire per un drenaggio definitivo dell’acqua, creando un sistema di riflusso che ne scongiuri l’accumulo in futuro. Questo non tanto per questioni legate alla sicurezza strutturale quanto per creare un circuito visitabile. L’investimento sarebbe minimo e il ritorno decisamente interessante, visti i risultati conseguiti da altre località che hanno aperto i loro ipogei alle visite. 

Luca Craia

sabato 4 aprile 2015

I Racconti della Marca Bassa - Pocalisse





Faceva un caldo dell’altro mondo il giorno del funerale di Giancarlo. Solo che, se andate in paese oggi, a distanza di anni, e chiedete a qualcuno, il primo che passa, di raccontarvi dei funerali di Giancarlo vi si chiederà: “Giancarlo chi?”. Perché, vedete, nei paesini di quella regione stretta tra gli Appennini e il mare Adriatico, avvezza alle perturbazioni dai Balcani e allo Scirocco estivo, benedetta da un clima mitissimo d’estate e comunque piacevole d’inverno, un luogo dove si va dalla costa al monte Sibillino in meno di un’ora, i nomi non dicono nulla: contano i soprannomi. E il nostro Giancarlo (che di giancarli lì ce n’erano diversi) si chiamava per tutti Pocalisse. Di fatto questo curioso personaggio, sempre vestito con un grembiule da farmacista o da macellaio, fate voi, bianco all’origine e chiazzato di ogni colore del creato per le sue peregrinazioni urbane, era per tutti Pocalisse perché, come nei romanzi d’appendice o nei peggiori film di fantascienza, dove c’è sempre quella specie di Diogene dei poveri che gira urlando per le strade annunciando la fine del mondo, girava appunto per i vicoli del paesello avvertendo il prossimo dell’Apocalisse imminente. E dava anche la data precisa: il 27 luglio del millenovecentottantare. Si sa: da quelle parti si storpiano i nomi, figuriamoci i soprannomi. E così Giancarlo divenne per tutti Pocalisse.
         Lui lo annunciava già dal settantasei per cui ci si meravigliò non poco quando proprio il 26 luglio del fatidico ottantatré, giornata di un’afa infernale, Pocalisse fu trovato stecchito e un po’ appuzzato vicino ad un bidone della spazzatura davanti al palazzaccio, stroncato da un infarto o da una roba simile. Non avendo parenti prossimi, e quelli poco più che prossimi o remoti che fossero erano latitanti per vergogna della suddetta parentela, il funerale fu preso in carico dal Comune. E siccome Pocalisse era da tutti conosciuto e tutto sommato amato per quel tocco di colore e stramberia che dava ad un borgo altrimenti morto stecchito, si decise di fargli un funerale coi controfiocchi, in chiesa col parroco, il Sindaco e pure i carabinieri.
         Dato che il decesso era fatto risalire intorno alle ore dodici del giorno prima, le ventiquattrore di legge cadevano ad un orario improbabile per un funerale, soprattutto in base al caldo boia che faceva. Così si stabilirono le funzioni per le diciassette, che avrebbe almeno rinfrescato un po’. E le si stabilirono nella chiesa nuova, quella fuori le mura, perché si prevedeva un flusso di gente al di sopra del normale.
         Alle sedici e trenta del 27 luglio 1983 alla chiesa nuova fuori le mura, sul selciato, c’erano almeno quaranta gradi. Dentro la chiesa non si sa ma di gradi ce n’erano tanti. E c’era anche tanta gente, forse troppa per la struttura. Col caldo bestia che faceva tutte le donne erano venute armate di ventaglio. Gli uomini presero il libretto dei canti e lo trasformarono tutti in ventaglio anch’esso.  Il parroco cominciò la messa e già c’era tutto un frullare di mani e mantici più o meno improvvisati. Il caldo non calmava, anzi, e verso metà predica c’era già qualcuno che dubitava di arrivare vivo alla benedizione. Don Dino, poi, si applicò non poco per fare una di quelle omelie che sarebbero pure state toccanti a novembre ma il 27 di luglio alle diciassette e rotti, con quel caldo, erano solo una specie di tortura inquisitoria a cui molti avrebbero preferito la vergine di Norimberga.
         Alla Comunione erano ancora tutti vivi eccetto Pocalisse. I ventagli però frullavano rumorosamente. I pochi che ebbero la forza di alzarsi per comunicarsi portarono con sé il ventaglio o il facente funzione e non smisero di sventolarsi nemmeno mentre il prete gli dava l’ostia. Il rumore dell’aria smossa dalle ventole a mano si faceva evidente, forte addirittura. Si arrivò alla benedizione che si sentiva più il suono dell’aria smossa che le parole di don Dino. E qui accadde l’incredibile: quando il prete prese a spargere l’incenso sulla bara il ritmo dell’ondeggiare del turibolo prese a coincidere con quello della gran parte dei ventagli. Dopo pochi istanti, per un incredibile scherzo del destino, tutti i ventagli andavano allo stesso tempo, avanti e indietro. La chiesa si rinfrescò di botto.
         Ognuno sentiva l’aria del proprio ventaglio e quella del vicino, di quello davanti e anche di quello dietro.  L’aria cominciò a turbinare, piano, poi crescendo, un po’ più forte, più forte sempre più forte, e iniziò a girare e girare e vorticare nella chiesa. Tutti smisero di sventolarsi ma ormai era l’inerzia a muovere l’aria, unita a qualche strano fenomeno fisico dovuto al contrasto tra aria fredda e calda che non so spiegare. Fatto sta che si generò un vento forte, il vento girava su se stesso con velocità sempre più spinta. Nella chiesa nuova fuori le mura volava tutto: fogli, piante, indumenti. La gente si buttò a terra terrorizzata. I banchi ballavano, le candele si spensero, le luci elettriche pure. Il prete cominciò a salmodiare in latino. Quelli vicini alla porta cercarono di prendere l’uscita ma le porte si richiusero di schianto. E un vortice fortissimo si sprigionò dalla platea verso il tetto. E il tetto, con un rumore simile a quello di un tuono ma più terrificante, in un nuvolo di calcinacci polverosi, volò via. Volò per quasi un chilometro e si schiantò in mezzo a un campo di girasoli, rovinandoli tutti. Insieme al tetto volò via la bara che, però, fece poca strada e si fermò, rovesciata, sul selciato davanti alla chiesa.
         Pochi istanti di armageddon e tutto finì. Il vento si calmò e la gente si rialzò. Il prete riprese coscienza e cominciò a placare il terrore dei fedeli. I carabinieri aprirono a spallate la porta. Uscirono tutti come l’acqua esce dallo scarico del lavandino e fu incredibile che nessuno fini calpestato. Tutti corsero a casa, sindaco compreso, e rimasero solo il prete e i carabinieri di fronte alla bara sottosopra del povero Giancarlo. Il paese volò via sulle proprie gambe, anelante la sicurezza delle proprie mura e l’oblio.
         La spiegazione ufficiale fu che sulla chiesa si era abbattuta una tromba d’aria estiva e aveva divelto il tetto costruito, si suppose, non proprio a regola d’arte, tanto che l’ingegnere che aveva firmato il progetto, invero senza nemmeno leggerlo, fu inquisito ma poi assolto per insufficienza di prove.  Ma chi c’era giura ancora che la tromba d’aria non era venuta da fuori: era nata dentro la chiesa, dai ventagli. E un paio dei carabinieri che andarono a raccogliere la bara di Pocalisse, dopo un paio di bicchieri al bar (presi fuori servizio, ben inteso) si lasciarono sfuggire di avere sentito, o almeno era parso loro di sentire, una specie di sghignazzo che sembrava, ribadirono sembrava, provenire da dentro la cassa.