giovedì 26 luglio 2018

Caro De Andrè: tutt’altro che un tributo. La conservazione di uno scrigno.


Ci sono più modi per approcciarsi all’ascolto di un concerto di Caro De Andrè. Il primo è quello più naturale, quello di chi va ad ascoltare un tributo a un unicum della cultura italiana, un uomo che ha coniugato la parola con la musica in una fusione impareggiabile, creando una miscela di comunicazione artistica che rimane e sempre rimarrà non ascrivibile negli schemi di letteratura o musica. Caro De Andrè potrebbe essere quindi vista come una delle tante tribute band, e può andare, anche se non è esatto.
C’è un secondo modo di andare a un concerto di Caro De Andrè, ed è un modo inconsapevole, almeno finchè Carlo Bonanni non entra e fa entrare anche te quasi fisicamente nello spartito e nel testo, quasi nella mente stessa di Faber.  A quel punto capisci che non c’è imitazione, tributo, riproduzione, ma si è di fronte a qualcosa di diverso e molto più profondo. Carlo Bonanni non imita De Andrè, lo interpreta e a tratti rivisita, con quel rispetto immenso che solo chi ama immensamente può avere. La voce di Carlo somiglia a quella di Fabrizio De Andrè ma non la imita, il suo modo di cantare è molto vicino ma non è lo stesso e non vuole esserlo, la sua interpretazione è il risultato dell’amore di cui sopra e di una ricerca non squisitamente tecnica ma nell’animo, di uno sforzo per capire, comprendere, immedesimarsi e forse, per qualche istante, essere Fabrizio De Andrè.
E c’è Fabrizio De Andrè sul palco, mentre suonano; lo dico senza temere di essere banale, perché chi ha amato Faber non può non rivivere istanti vissuti quando seduto su quella sedia c’era lui e non Carlo. Sono lampi, perché a suonare e cantare c’è un medico piceno e non un poeta genovese, ma quel medico è capace di portarti a Genova, nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi. E tutto questo deriva da un lavoro certosino di ricerca, di conoscenza, di approfondimento. Ma deriva anche dall’immenso amore che Carlo ha per Faber.
Dietro a Carlo c’è un gruppo di strumentisti elevatissimi, tutti, dal primo all’ultimo capaci di sonorità che avremmo potuto ascoltare a un concerto di De Andrè: una ricerca dei suoni meticolosa, un non accontentarsi di campionamenti per prediligere l’uso dello strumento. Ma anche qui, non siamo di fronte a una copia ma a una rispettosissima interpretazione, interpretazione che tocca l’apice quando la chitarra fraseggia con la voce in Amico Fragile, a raccontarci la sofferenza dell’animo di un poeta che parla con la musica.
Fabrizio De Andrè non c’è più, purtroppo, ma c’è chi ci sa ancora regalare emozioni paragonabili con quelle che regalava lui a chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo non soltanto sui dischi. Ecco, un concerto di Caro De Andrè è un viaggio, tra Genova e la Sardegna, un viaggio sopra un mare salato, tra vecchie carte ormai ingiallite piene di note musicali e di annotazioni in versi; una scoperta, più che una riscoperta, un vedere l’uomo e l’artista De Andrè con gli occhi di chi è arrivato molto vicino a capirlo.

Luca Craia