Ci sono più modi per approcciarsi all’ascolto di un
concerto di Caro De Andrè. Il primo è quello più naturale, quello di chi va ad
ascoltare un tributo a un unicum della cultura italiana, un uomo che ha coniugato
la parola con la musica in una fusione impareggiabile, creando una miscela di comunicazione
artistica che rimane e sempre rimarrà non ascrivibile negli schemi di
letteratura o musica. Caro De Andrè potrebbe essere quindi vista come una delle
tante tribute band, e può andare, anche se non è esatto.
C’è un secondo modo di andare a un concerto di Caro
De Andrè, ed è un modo inconsapevole, almeno finchè Carlo Bonanni non entra e fa entrare anche te quasi fisicamente nello spartito e nel testo, quasi nella mente
stessa di Faber. A quel punto capisci
che non c’è imitazione, tributo, riproduzione, ma si è di fronte a qualcosa di
diverso e molto più profondo. Carlo Bonanni non imita De Andrè, lo interpreta e
a tratti rivisita, con quel rispetto immenso che solo chi ama immensamente può avere.
La voce di Carlo somiglia a quella di Fabrizio De Andrè ma non la imita, il suo
modo di cantare è molto vicino ma non è lo stesso e non vuole esserlo, la sua
interpretazione è il risultato dell’amore di cui sopra e di una ricerca non squisitamente
tecnica ma nell’animo, di uno sforzo per capire, comprendere, immedesimarsi e
forse, per qualche istante, essere Fabrizio De Andrè.
E c’è Fabrizio De Andrè sul palco, mentre suonano; lo
dico senza temere di essere banale, perché chi ha amato Faber non può non
rivivere istanti vissuti quando seduto su quella sedia c’era lui e non Carlo. Sono
lampi, perché a suonare e cantare c’è un medico piceno e non un poeta genovese,
ma quel medico è capace di portarti a Genova, nei quartieri dove il sole del
buon Dio non dà i suoi raggi. E tutto questo deriva da un lavoro certosino di
ricerca, di conoscenza, di approfondimento. Ma deriva anche dall’immenso amore
che Carlo ha per Faber.
Dietro a Carlo c’è un gruppo di strumentisti elevatissimi,
tutti, dal primo all’ultimo capaci di sonorità che avremmo potuto ascoltare a
un concerto di De Andrè: una ricerca dei suoni meticolosa, un non accontentarsi
di campionamenti per prediligere l’uso dello strumento. Ma anche qui, non siamo
di fronte a una copia ma a una rispettosissima interpretazione, interpretazione
che tocca l’apice quando la chitarra fraseggia con la voce in Amico Fragile, a
raccontarci la sofferenza dell’animo di un poeta che parla con la musica.
Fabrizio De Andrè non c’è più, purtroppo, ma c’è chi
ci sa ancora regalare emozioni paragonabili con quelle che regalava lui a chi ha
avuto la fortuna di ascoltarlo non soltanto sui dischi. Ecco, un concerto di
Caro De Andrè è un viaggio, tra Genova e la Sardegna, un viaggio sopra un mare
salato, tra vecchie carte ormai ingiallite piene di note musicali e di
annotazioni in versi; una scoperta, più che una riscoperta, un vedere l’uomo e
l’artista De Andrè con gli occhi di chi è arrivato molto vicino a capirlo.
Luca Craia