mercoledì 9 maggio 2018

Via Caetani 40 anni dopo: c’è tanto da imparare


Oggi fanno quarant’anni tondi da quel 9 maggio 1978 che segnò il tragico epilogo di uno dei capitoli più bui della storia recente e cambiò radicalmente la storia dell’Italia. È un giorno che va ricordato, non soltanto per la celebrazione, tra l’altro giusta e doverosa, della grandezza dell’uomo Aldo Moro, statista finissimo dotato di una visione complessa e geniale dello Stato e della sua evoluzione, ma anche per l’insegnamento che porta con sé, un insegnamento che travalica la retorica e che tocca temi purtroppo ancora stringenti nella contemporaneità del loro potenziale ripetersi.
Il ’68 in Italia non è mai realmente finito. Non era affatto finito, anzi, era nel pieno del suo furore e della sua degenerazione in quell’anno di sconvolgimenti profondi, nel cui contesto si inserì il rivoluzionario tentativo di coinvolgere la sinistra nel governo del Paese, tentativo che si risolse con la morte del suo ideatore. Una morte prevedibile, perché le idee di Moro erano in grado di stravolgere la situazione tanto di creare problemi a più parti, stravolgendo le strategie geopolitiche americane e quelle sovietiche, annullando l’azione rivoluzionaria eversiva della sinistra extraparlamentare e riducendo il potere della destra centrista. Insomma, Moro firmò la sua condanna a morte solo concependo l’idea di compromesso storico.
Nello stesso tempo, però, la morte di Moro, così come ci è stata raccontata, non ha senso. Non ha senso soprattutto perché sembra impossibile che le Brigate Rosse non abbiano compreso che quell’azione scellerata avrebbe segnato l’inizio del proprio inesorabile declino, eliminando con un colpo solo quel consenso strisciante che pure era presente e cresceva in parte dell’opinione pubblica e che tanto rendeva pericoloso il piano eversivo dei terroristi comunisti. Per questo appare inconcepibile come quest’azione potesse inserirsi in un piano che, fino ad allora, sembrava quasi perfetto.
Non ci hanno mai raccontato la verità, i protagonisti in negativo di questa storia. Anzi, ci hanno raccontato un sacco di frottole, tanto da dare adito al sospetto che la loro presumibile inconsapevolezza di essere manipolati e usati da poteri ben più grandi di loro non fosse reale ma solo parte del piano. Quel che è certo è che non agirono da soli, che non erano sufficientemente attrezzati né per un’azione militare così precisa quale fu il rapimento né per rimanere nascosti per così tanto tempo senza essere disturbati.
La morte di Moro è servita a molti ma non alla causa della cosiddetta rivoluzione proletaria. Eppure il rapimento poteva essere un’arma tattica notevole: se soltanto le BR avessero rinunciato alla trattativa e liberato Moro, avrebbero vinto loro. Era evidente, ma non lo hanno fatto, consegnando il loro progetto alla sconfitta e alla storia un giudizio implacabile sul loro operato.
Sono ancora vive, nella nostra società di oggi, a quarant’anni di distanza, alcune di quelle pulsioni che portarono all’affermarsi e al rafforzarsi della lotta armata. Anzi, il clima politico attuale, unito alla profonda crisi economica e sociale che l’Italia sta vivendo, stanno creando i presupposti perché si possano innescare nuovi focolai eversivi. Questo rappresenta un pericolo doppio, dato dall’eversione stessa ma anche e soprattutto dalla possibilità di infiltrazioni e strumentalizzazioni della stessa eversione da parte di poteri forti, quegli stessi poteri che allora determinarono la morte di Aldo Moro e le sue modalità, che allora furono capaci, in un colpo solo, di annullare gli effetti della politica moderna e lungimirante del Presidente della Democrazia Cristiana e, nello stesso tempo, spingere lungo il declino le velleità rivoluzionarie dei nuclei terroristici di sinistra. Quei poteri sono ancora forti, più forti che mai. E il ritorno dell’eversione non può che fare il loro gioco. Esattamente come allora.

Luca Craia