giovedì 17 maggio 2018

Grillo cucina l’Italia e ci dice che siamo cotti.


Ho guardato con grande raccapriccio, lo confesso, la scenetta da cabaret di Beppe Grillo in versione cuoco (penta)stellato. Il raccapriccio non è dovuto, di per sé, allo sketch, anche se il comico genovese una volta era più efficace, almeno nell’arte di far ridere, ma per il fatto che, in realtà, non si volesse far ridere. L’apparizione di Grillo è un messaggio politico e come tale è stato da tutti interpretato. Non entro nemmeno nel merito del messaggio, che potrebbe anche essere condivisibile. Mi fermo alla forma, perché anche la forma ha la sua importanza.
La forma è turpe, irrispettosa delle Istituzioni alle quali ci si rivolge, irrispettosa dei cittadini che ascoltano e guardano, irrispettosa del Paese che, sinceramente, nonostante tutto credo meriti qualcosa di più. La politica deve rappresentare il meglio del Paese, non la media del suo livello culturale, non i suoi profondi mal di pancia. La politica deve interpretarli, i mal di pancia, ma non deve far sentire la digestione del Popolo, il meteorismo che ne consegue. Non si può fare politica col turpiloquio ma non si può nemmeno farla con le scenette.
Sono antico, forse, probabilmente superato, ma ritengo ancora che il rispetto della forma, dei ruoli, dell’interlocutore siano importanti, come importanti sono le parole, i vocaboli, il modo di esprimersi quando si tende a occuparsi della cosa pubblica. Perché occuparsi della cosa pubblica è una missione altissimi e altissima deve essere anche nella forma, oltre che nella sostanza. E se cediamo alla forma, non possiamo aspettarci nulla di buono dalla sostanza, con tutti i buoni propositi che possiamo avere.

Luca Craia