Non so se avrei detto l’Ave Maria
in aula insieme alla professoressa Ferranti ma certamente non avrei gridato
allo scandalo. Quello accaduto a Macerata è grave, ma non nel gesto dell’insegnante
universitaria che ha detto in aula una preghiera per la pace, cosa che non
sembra proprio così nefasta e perniciosa. La gravità sta nella solita reazione
violenta sui social e, si badi bene, solo sui social, perché faccia a faccia
con la prof non ha protestato nessuno, a quanto è dato sapere. I rivoluzionari
da tastiera si sono scatenati dopo.
La cosa più grave, però, è l’atteggiamento
del Rettore che è corso a scusarsi pubblicamente prima ancora di avere un
quadro dei fatti preciso e accurato, senza nemmeno sentire la professoressa
incriminata di cotanto reato contro la laicità dello Stato. Una corsa al mettersi al riparo da critiche e impopolarità che la dice lunga
sulla visione della propria missione che pare avere il responsabile dell’ateneo.
Sono tempi bui, in cui la
libertà sta da una parte sola. C’è la libertà di indignarsi se un’insegnante
dice una preghiera in aula ma non c’è la liberta di dirla, quella preghiera in
aula. Ed è una preghiera, non una lezione su come massacrare lo straniero o buttare
una bomba atomica. Una preghiera per la pace che ha causato una guerra. In una
società in cui le pubbliche istituzioni cedono l’uso gratuito di strutture
pubbliche per far pregare i musulmani, tanto per fare un esempio, un’insegnante
non è libera di dire una preghiera in aula, senza obbligare nessuno. E senza
che nessuno abbia protestato, di persona, come fanno gli esseri umani.
Luca Craia
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