sabato 3 agosto 2019

I terremotati non hanno la bava alla bocca. Ma sono esasperati da inerzia e ipocrisia.


Ne conosco moltissimi, di terremotati, avendo seguito la loro vicenda fin dalla prima scossa del 2016. Per questo credo di poter affermare che non hanno la bava alla bocca come può trasparire da certe notizie che circolano recentemente a proposito di alcune reazioni all’ennesima ipocrita sparata di Risorgimarche circa i supposti benefici della manifestazione. Non hanno la bava alla bocca, ve lo posso garantire, e non ce l’hanno con la gente che va ai concerti, state tranquilli. Sanno benissimo che chi va ai concerti ci va per divertirsi e che, così facendo, sostanzialmente non fa nulla di male.
I terremotati, per come li conosco io, sono esasperati per l’immobilismo, per l’inerzia perdurante, per tre anni di frottole e passarelle, per tre anni di nastri tagliati, per tre anni di concerti bellissimi spacciati per solidarietà, cosa che non sono. Sono stanchi, i terremotati, di essere presi per i fondelli da chi vuole far credere che si sta facendo qualcosa quando la pura verità è che non si sta facendo niente. Non sta facendo niente lo Stato, nonostante cambino i governi, non sta facendo niente la Regione che, anzi, mi pare stia gestendo la cosa nel peggiore dei modi, non sta facendo niente l’organizzazione di Risorgimarche, che è una bella iniziativa ma che col terremoto non c’entra niente, ma proprio niente.
Ed è questo che fa arrabbiare i terremoti: l’ipocrisia di spacciare una cosa per un’altra, forse in buona fede, forse no. Si sospetta fortemente che sia più vera la seconda ipotesi. Chi va ai concerti di Risorgimarche non ha colpe, ma neanche meriti. Non porta niente ai terremotati e non sostiene l’economia locale, prima di tutto perché l’economia locale, se non parte la ricostruzione, praticamente non c’è, secondo perché sono ben altre e più pesanti le iniziative di cui si avrebbe bisogno.
Fa arrabbiare anche quello che, sui social, siccome si è divertito un sacco al concerto, si ritiene offeso se un terremotato fa notare che il concerto non ha dato alcun beneficio a lui, alla sua famiglia, al suo paese e alla sua terra. E reagisce, addirittura insultando il terremotato stesso che, di problemi, credetemi, ne ha ben altri piuttosto che ascoltare lo sfogo del fan di turno.
Ecco, volevo precisarlo, perché non passi il concetto sbagliato. Date solidarietà vera ai terremotati, solidarietà che non si dimostra andando ai concerti di Risorgimarche ma dimostrando almeno disappunto per la situazione, informandosi bene su come stanno le cose, provando empatia per chi non ha più una casa da tre anni e non vede all’orizzonte la possibilità di riaverla a breve, vedendosi impedito anche di farlo con le proprie forze.
Non ce l’hanno con voi, i terremotati. Però, se volete dimostrare solidarietà, andare ai concerti non serve. Servono altre cose.

Luca Craia


Made in Italy. Cos’è (di Giuseppe Iorio).


Sono orgoglioso di ospitare sul mio blog, grazie all'interessamento dell'amico Guido Vergari, un pezzo molto interessante di Giuseppe Iorio. Buona lettura. 

 
Un concetto semplice, palese. Una produzione per dirsi italiana deve essere realizzata in Italia. Un’idea non astratta che tutti noi possiamo percepire e intuire con estrema facilità, e proprio per questo resta un dato di fatto, quasi un postulato. Perché mai un capo d’abbigliamento che certa gente è disposta a pagare qualche migliaio d’euro non debba essere prodotto qui da noi, sembra quasi incomprensibile. E ci può stare il prezzo, perché se c’è chi compra, c’è chi vende e di conseguenza dovrebbe godere del beneficio anche chi ci lavora; nel nostro caso, chi le cose le fa, le produce, con impegno e  sacrificio, e non solo chi le concepisce. Eppure qualcuno non la pensa così! Ma chi? Forse qualche contraffattore cronico, magari una lobby di commercianti senza scrupoli, oppure un avventuriero a cui piace barare…. No! Non è proprio esattamente in questo modo che stanno le cose.
E non serve armarsi di pala e piccone per andarsene a scavare attorno all’albero delle monete d’oro, quello di Pinocchio, del Gatto e la Volpe,  cercando una risposta che sia plausibile; tantomeno bisogna pendere dalle labbra di qualche economista, o di certi “politici”, o di  giornalisti prezzolati, edotti sull’argomento a modo loro, o meglio sarebbe scrivere “indotti”, che quotidianamente, al soldo di soggetti che non hanno altro scopo nella vita se non accrescere patrimoni a discapito di tutto e tutti, eludono quotidianamente il solo vero problema che sta alla base di ogni malessere e che sta trascinando il nostro Bel Paese nel baratro: il lavoro. Quello vero. Quello che puoi “toccare”… La risposta è semplice; paradossalmente semplice, perché i “delocalizzatori”, quelli che producono beni di lusso all’estero, sono proprio loro, i creativi del “Made in italy”, gli esponenti più celebri, celebrati e stimati dell’eccellenza italiana. I baroni del lusso, i chirurghi del prêt-à-porter, capaci d’estrarre tradizione e conoscenza per produrre disagio, indigenza e disoccupazione, dopo aver ricucito con cura le ferite.  I maghi del prodotto “che te lo vendo a mille e me lo faccio costare cinquanta”, pure se devo spremere povertà e miseria in giro per il mondo; senza scrupoli e senza confini, violando diritti e volando qua e là comodamente nella cabina di un A380 o di un Falcon privato con la scusa della globalizzazione. Ne conosciamo i nomi, ad uno ad uno, le loro storie, gli imbrogli, le strategie, le ricchezze e i fatturati.
Alla fine, viaggiare alla ricerca di posti sperduti dove poter grattare qualche manciata d’euro per “ottimizzare” i costi di produzione; alla fine, genera esperienza. Ma in fondo, l’esperienza è fatta di ricordi, belli e brutti. I secondi, nel caso di chi prende coscienza di un sistema corrotto e corrosivo, sono di gran lunga più numerosi dei primi. Però c’è un lato positivo in tutto questo: la miseria, le condizioni spesso disumane di gente sfruttata per pochi euro al mese, possono almeno provocare una reazione. Scrivere. Parlare. Dire la verità, e spartire quei ricordi, anche se non è facile. È facile entrare nel sottotetto di casa e frugare in uno scatolone pieno di foto e vecchie cassette vhs, alla ricerca di un momento difficile da piazzare nel tempo. Poi, all’improvviso trovi quello che stavi cercando, e allora lo condividi, magari portando quella vecchia foto a qualcuno; a tuo figlio, che nel frattempo sta diventando un uomo e ti guarda in modo strano, forse perché intuisce che in quella spasmodica ricerca di un ricordo, stai seriamente cominciando ad invecchiare. Tutt’altra cosa, invece, è spostare un’idea, un concetto, nella testa di chi si cura solo del profitto nonostante sia già ricchissimo. È difficilissimo; perché, forse, è malato.
Certi argomenti si trattano con un consueto malumore. Tutto va alla malora, la crisi è inarrestabile, gli sciacalli del “Made in Italy” producono solo miseria e i pochi che si arricchiscono lo fanno a discapito di tutti… E tutti siamo noi.
Sventuratamente è tutto vero e, francamente, non è facile trovare un altro modo per esprimere la delusione e la rabbia legate al fatto che le eccellenze del settore Moda – Lusso, e non solo, non provino neanche a generare un minimo di ricchezza condivisibile da una fascia più ampia della popolazione, almeno quella che ci lavora o meglio, mi correggo, che se le cose andassero per il verso giusto potrebbe lavorarci.
Sarebbe bello poter trattare l’argomento in modo differente. Nemmeno invertendo certi canoni, lasciando spazio a certe ouverture traboccanti di presupposti catastrofici, e sarebbe altrettanto bello sbattere in faccia a chi sta massacrando il nostro Paese esempi positivi, sani, che sanno di buono. E ce ne sono di persone, imprenditori veri, che nonostante tutto riescono ad associare etica e lavoro; semplicemente curandosi degli altri, della gente che gravita attorno al piccolo universo che loro stessi hanno creato e che sta alla base di tutto, della crescita e del successo. Semplicemente. Dignitosamente.
Purtroppo, con azioni mediatiche, vengono soffocati dai più, da quelli che contano veramente e che al pari di certi politici di lungo corso preferiscono stare nell’ombra o defilarsi quando hanno a che fare con la verità. Abili manipolatori d’opinioni, lasciano che certi argomenti siano relegati al basso rango di stupide dicerie: pettegolezzi appunto, perciò disertano ogni occasione. Nel frattempo, magari, se ne stanno a controllare in Turchia che una camicia da quattrocento euro sia confezionata alla perfezione in cambio di una cassetta di patate – al mercato la cassetta costa 6/7 euro – o a Prato, da qualche cinese che per pochi spiccioli confeziona borse rivendute a duemila e passa. Scompaiono, diventano invisibili per poi riapparire da abili illusionisti, solenni, lapidari, religiosi, su di una passerella da qualche parte nel Mondo.
Perciò, è da stupidi ostinarsi a sconfinare in quel vecchio positivismo di strada, tanto caro a chi fa gossip e a chi distorce la realtà ostentando un mondo fatto di ristoranti sempre pieni giorno e notte, di strade affollate da gente col portafoglio carico, di negozi tracimanti di clienti che quasi non ce la fanno a tener su borse e pacchi! Di auto di grossa cilindrata vendute al pari delle utilitarie e che scorrazzano per le carreggiate delle nostre strade e autostrade. Il tutto senza porsi una banale domanda: ma dov’è che si vedono queste cose e soprattutto chi, e con “quale tipo” di denaro può permettersele? Dov’è che i ristoranti sono pieni di persone che spendono una valanga di soldi in auto e vestiti? A Roma… A Milano, forse. Be’, si. Da quelle parti, se non te ne vai in giro per le stazioni e cerchi di startene nel perimetro off-limits e on-control del centro del centro ma veramente centro di città, la realtà magari può anche avvicinarsi un po’ al concetto di prosperità che lava la coscienza di qualcuno e incrementa la crescita di un’illusione. Questa scenografia di vita quotidiana non la vedevi e non la vedi nel restante 80% d’Italia. Nelle città minori, nei posti di provincia, nei lunghi periodi morti dell’anno, quando per strada non c’è un cane e i titolari di piccole attività se ne stanno davanti all’entrata dei loro negozi nell’attesa che qualcuno passi, se passa, e che magari si decida a spendere una manciata d’euro. Sono quei posti, quei piccoli distretti artigianali prima sfruttati e poi abbandonati la vera chiave di lettura di una crisi che forse non c’è mai stata, o che almeno si poteva evitare se a decidere strategie e a ridisegnare la mappa di questa “nuova” Italia, non fossero stati abili e avidi architetti.

Giuseppe Iorio



Giuseppe Iorio studia a Parigi, all’École de mode. Inizia a lavorare per Moncler, Vuitton, Versace, Dolce & Gabbana e altri. Non frequenta il mondo delle passerelle, ma le fabbriche delocalizzate di Europa dell’Est e Africa. Nel 2014 contatta la redazione di Report e li porta in Transnistria, dove inizia anche questa cronaca senza filtri, amara e dolorosa di come funziona davvero il fashion world italiano.