lunedì 5 agosto 2019

L’Italia che celebra gli assassini. La violenza diventa strumento politico.


Ragionavo sugli anniversari che si susseguono d’estate: via D’Amelio, Ustica, Bologna, Italicus e via discorrendo. Sono anniversari importanti, perché dovrebbero servire da monito, dovrebbero farci capire quanto sia delicata la democrazia in questo Paese e quanto sia importante rimanere coesi almeno sulla difesa delle libertà costituzionali. Invece ogni anniversario ci riporta a capitoli della nostra storia che non si sono mai chiusi, storie senza finale, senza catarsi, senza redenzione alcuna. In Italia le stragi, la violenza, la vita strappata alle persone e le persone strappate alla loro vita, ai loro cari, non trovano giustizia, non trovano verità.
Non c’è un colpevole per questi fatti di sangue. Come, in definitiva, non c’è nemmeno per altri atti contro la Nazione e il suo Popolo. Il terrorismo politico, in Italia, sia esso fascista che comunista, non ha mai avuto colpevoli. Non solo: quelli che la giustizia ha riconosciuto tali, oggi godono di un’inspiegabile redenzione, di una nuova vita sociale, di un perdono che supera la colpa ed erge la figura del reietto al ruolo di maestro, sposta l’assassino dal margine della società alla sua sommità.
Terroristi che, quarant’anni fa, andavano in giro col mitra oggi parlano ai giovani universitari di filosofia e politica, scrivono libri, sono considerati parte integrante del mondo intellettuale. È più di una giustificazione della violenza, è un annullamento della colpa radicale che sancisce l’uso politico della violenza come strumento assimilato alla dialettica democratica. Il mondo intellettuale italiano, di fatto, svaluta la vita dei cittadini e le radici della democrazia dando valore al fine ultimo dell’obiettivo politico.
Le stragi fasciste e comuniste, quelle di mafia e quelle evidentemente pilotate da pezzi dello Stato, hanno tutte l’obiettivo di operare modifiche alla società non attraverso l’uso degli strumenti democratici ma con l’utilizzo estremo della violenza. In Italia questo pare essere normale, tra morti irrisolte e senza assassini e assassini che diventano maestri di vita. In tutto questo diventa normale concettualmente l’utilizzo della violenza come strumento politico. Molto pericoloso.

Luca Craia




I Racconti della Marca Bassa – 1 - Pocalisse – di Luca Craia


Clima vacanziero e rilassato, ad agosto, quindi pubblico, tra i ragionamenti vari sull’attualità, alcuni dei miei racconti. Se avete piacere, leggeteli. Partiamo col primo, Pocalisse, un racconto surreale estivo.

Faceva un caldo dell’altro mondo il giorno del funerale di Giancarlo. Solo che, se andate in paese oggi, a distanza di anni, e chiedete a qualcuno, il primo che passa, di raccontarvi dei funerali di Giancarlo vi si chiederà: “Giancarlo chi?”. Perché, vedete, nei paesini di quella regione stretta tra gli Appennini e il mare Adriatico, avvezza alle perturbazioni dai Balcani e allo Scirocco estivo, benedetta da un clima mitissimo d’estate e comunque piacevole d’inverno, un luogo dove si va dalla costa al monte Sibillino in meno di un’ora, i nomi non dicono nulla: contano i soprannomi. E il nostro Giancarlo (che di giancarli lì ce n’erano diversi) si chiamava per tutti Pocalisse. Di fatto questo curioso personaggio, sempre vestito con un grembiule da farmacista o da macellaio, fate voi, bianco all’origine e chiazzato di ogni colore del creato per le sue peregrinazioni urbane, era per tutti Pocalisse perché, come nei romanzi d’appendice o nei peggiori film di fantascienza, dove c’è sempre quella specie di Diogene dei poveri che gira urlando per le strade annunciando la fine del mondo, girava appunto per i vicoli del paesello avvertendo il prossimo dell’Apocalisse imminente. E dava anche la data precisa: il 27 luglio del millenovecentottantare. Si sa: da quelle parti si storpiano i nomi, figuriamoci i soprannomi. E così Giancarlo divenne per tutti Pocalisse.
Lui lo annunciava già dal settantasei per cui ci si meravigliò non poco quando proprio il 26 luglio del fatidico ottantatré, giornata di un’afa infernale, Pocalisse fu trovato stecchito e un po’ appuzzato vicino ad un bidone della spazzatura davanti al palazzaccio, stroncato da un infarto o da una roba simile. Non avendo parenti prossimi, e quelli poco più che prossimi o remoti che fossero erano latitanti per vergogna della suddetta parentela, il funerale fu preso in carico dal Comune. E siccome Pocalisse era da tutti conosciuto e tutto sommato amato per quel tocco di colore e stramberia che dava ad un borgo altrimenti morto stecchito, si decise di fargli un funerale coi controfiocchi, in chiesa col parroco, il Sindaco e pure i carabinieri.
Dato che il decesso era fatto risalire intorno alle ore dodici del giorno prima, le ventiquattrore di legge cadevano ad un orario improbabile per un funerale, soprattutto in base al caldo boia che faceva. Così si stabilirono le funzioni per le diciassette, che avrebbe almeno rinfrescato un po’. E le si stabilirono nella chiesa nuova, quella fuori le mura, perché si prevedeva un flusso di gente al di sopra del normale.
Alle sedici e trenta del 27 luglio 1983 alla chiesa nuova fuori le mura, sul selciato, c’erano almeno quaranta gradi. Dentro la chiesa non si sa ma di gradi ce n’erano tanti. E c’era anche tanta gente, forse troppa per la struttura. Col caldo bestia che faceva tutte le donne erano venute armate di ventaglio. Gli uomini presero il libretto dei canti e lo trasformarono tutti in ventaglio anch’esso.  Il parroco cominciò la messa e già c’era tutto un frullare di mani e mantici più o meno improvvisati. Il caldo non calmava, anzi, e verso metà predica c’era già qualcuno che dubitava di arrivare vivo alla benedizione. Don Dino, poi, si applicò non poco per fare una di quelle omelie che sarebbero pure state toccanti a novembre ma il 27 di luglio alle diciassette e rotti, con quel caldo, erano solo una specie di tortura inquisitoria a cui molti avrebbero preferito la vergine di Norimberga.
Alla Comunione erano ancora tutti vivi eccetto Pocalisse. I ventagli però frullavano rumorosamente. I pochi che ebbero la forza di alzarsi per comunicarsi portarono con sé il ventaglio o il facente funzione e non smisero di sventolarsi nemmeno mentre il prete gli dava l’ostia. Il rumore dell’aria smossa dalle ventole a mano si faceva evidente, forte addirittura. Si arrivò alla benedizione che si sentiva più il suono dell’aria smossa che le parole di don Dino. E qui accadde l’incredibile: quando il prete prese a spargere l’incenso sulla bara il ritmo dell’ondeggiare del turibolo prese a coincidere con quello della gran parte dei ventagli. Dopo pochi istanti, per un incredibile scherzo del destino, tutti i ventagli andavano allo stesso tempo, avanti e indietro. La chiesa si rinfrescò di botto.
Ognuno sentiva l’aria del proprio ventaglio e quella del vicino, di quello davanti e anche di quello dietro.  L’aria cominciò a turbinare, piano, poi crescendo, un po’ più forte, più forte sempre più forte, e iniziò a girare e girare e vorticare nella chiesa. Tutti smisero di sventolarsi ma ormai era l’inerzia a muovere l’aria, unita a qualche strano fenomeno fisico dovuto al contrasto tra aria fredda e calda che non so spiegare. Fatto sta che si generò un vento forte, il vento girava su se stesso con velocità sempre più spinta. Nella chiesa nuova fuori le mura volava tutto: fogli, piante, indumenti. La gente si buttò a terra terrorizzata. I banchi ballavano, le candele si spensero, le luci elettriche pure. Il prete cominciò a salmodiare in latino. Quelli vicini alla porta cercarono di prendere l’uscita ma le porte si richiusero di schianto. E un vortice fortissimo si sprigionò dalla platea verso il tetto. E il tetto, con un rumore simile a quello di un tuono ma più terrificante, in un nuvolo di calcinacci polverosi, volò via. Volò per quasi un chilometro e si schiantò in mezzo a un campo di girasoli, rovinandoli tutti. Insieme al tetto volò via la bara che, però, fece poca strada e si fermò, rovesciata, sul selciato davanti alla chiesa. Pochi istanti di armageddon e tutto finì. Il vento si calmò e la gente si rialzò. Il prete riprese coscienza e cominciò a placare il terrore dei fedeli. I carabinieri aprirono a spallate la porta. Uscirono tutti come l’acqua esce dallo scarico del lavandino e fu incredibile che nessuno fini calpestato. Tutti corsero a casa, sindaco compreso, e rimasero solo il prete e i carabinieri di fronte alla bara sottosopra del povero Giancarlo. Il paese volò via sulle proprie gambe, anelante la sicurezza delle proprie mura e l’oblio.
La spiegazione ufficiale fu che sulla chiesa si era abbattuta una tromba d’aria estiva e aveva divelto il tetto costruito, si suppose, non proprio a regola d’arte, tanto che l’ingegnere che aveva firmato il progetto, invero senza nemmeno leggerlo, fu inquisito ma poi assolto per insufficienza di prove.  Ma chi c’era giura ancora che la tromba d’aria non era venuta da fuori: era nata dentro la chiesa, dai ventagli. E un paio dei carabinieri che andarono a raccogliere la bara di Pocalisse, dopo un paio di bicchieri al bar (presi fuori servizio, ben inteso) si lasciarono sfuggire di avere sentito, o almeno era parso loro di sentire, una specie di sghignazzo che sembrava, ribadirono sembrava, provenire da dentro la cassa.

sabato 3 agosto 2019

Vox Poetica Ensemble: un lavoro di ricerca musicale che aiuta a ricostruire la storia fermana


Ascoltare il Vox Poetica Ensemble non è soltanto titillarsi con musica bellissima, inconsueta e straordinariamente eseguita da una perfetta sincronia di voci, solitamente accompagnate da finissimi solisti; il progetto, portato avanti dal maestro Giulio Fratini, non è solo una corale maestosa e pressochè perfetta, ma è anche un lavoro meticoloso di ricerca storica, tra archivi polverosi e reperti antichi, per ricostruire la musica che si suonava a Fermo tra il XVI e il XIII secolo.
Fermo era allora città di grande importanza, specie dopo l’ottenimento dell’arcivescovado. Per questo, i migliori musicisti sacri dell’epoca frequentavano, se non risiedevano in città, per offrire le loro composizioni durante i riti cattolici, in particolar modo nella Cattedrale e nella chiesa di San Filippo. Tra questi eminenti maestri vale la pena ricordare Gregorio Allegri, che tenne la cappella musicale della Cattedrale dal 1607 al 1627, ma anche Girolamo Vespa, Giovanni Pierluigi da Palestrina, Antonio Gaetano Pampani, Ortensio Polidori, Giovanni Battista Mastini e Carlo Antonio Cristiani, tutti compositori che hanno lasciato ampia traccia della loro opera a Fermo e che Giulio Fratini sta gradualmente riportando alla luce e al suono, eseguendone il repertorio proprio con il Vox Poetica Ensemble.
Ho avuto il piacere di ascoltare l’esecuzione di un concerto basato su musiche dei suddetti autori, nella mirabolante cornice della Basilica di Santa Maria della Misericordia in Sant’Elpidio a Mare, in cui il gruppo è stato sostenuto dal mio amico, il maestro Lorenzo Antinori all’organo, da Danilo Tamburo al cornetto e Andrea Piergentili al trombone rinascimentale. È qualcosa di stupefacente poter ascoltare musiche composte da oltre tre secoli ed eseguite in maniera presumibilmente identica a quella dell’epoca. Ma la cosa ancor più stupefacente è sapere che quelle musiche sono nate e venivano eseguite nella nostra terra. Questo è un valore aggiunto, perché contribuisce a ricostruire un momento storico preciso in cui la musica sacra era elemento culturale diffuso e popolare e faceva parte della quotidianità dell’epoca.
Un plauso, quindi, al maestro e ai coristi, ma soprattutto al progetto che va incoraggiato e sostenuto perché di valore assoluto e altissimo sia da un punto di vista culturale in genere che per quello che riguarda le Marche e il Fermano in particolare, la cui storia è purtroppo ancora poco nota e approfondita.

Luca Craia