mercoledì 17 gennaio 2018

Il nuovo antisemitismo è di sinistra.



Si dichiarano antifascisti, gli studenti di Torino che hanno organizzato un incontro dal titolo “Israele e lo sfruttamento dell’Olocausto”. Sono antifascisti ma anche antisionisti, come scrivono nello stesso manifesto che pubblicizza l’evento. E se la cosa potrebbe sembrare contraddittoria, basta farsi un giro sul web per ritrovare le radici di questo pensiero, radici farneticanti che arrivano a supporre delle responsabilità a livello di sionismo per quanto riguarda l’olocausto, considerando, in soldoni, che l’olocausto sia stata la più grande occasione per i sionisti di raccattare aiuti politici ed economici.
Siamo nell’epoca dei complottisti compulsivi, quelli delle scie chimiche, degli illuminati, dei disegni demoniaci e del complotto sinarchico universale. Nulla di sorprendente, quindi, in questa nuova idiozia collettiva. Il problema è che si sta diffondendo a macchia d’olio e trovo spessissimo posizioni simili anche in persone intellettualmente pochi inclini a de-ragionamenti di questo genere. La cosa è preoccupante, perché è dall’antisionismo, che si discosta poco, in termini pratici, dall’antisemitismo, che nascono le pagine di storia più brutte scritte dall’uomo.
La diffusione di questo concetto non è marginale: le università italiane sono densamente frequentate da studenti di fede e cultura islamica, terreno estremamente fertile per teorie anti-israeliane che ci metterebbero un attimo a diventare antisemitiche, specie in una subcultura trasversale tra fascisti e comunisti (ebbene sì, ancora ci sono entrambi) che non disdegna l’odio verso il popolo ebraico in nome della difesa dei diritti del Popolo Palestinese.
Non intendo addentrarmi, ora, nella questione palestinese, troppo complessa per essere trattata in questa sede e troppo articolata per essere strumentalizzata politicamente al di fuori dei luoghi più direttamente coinvolti. Ricordo però che siamo a ridosso della Giornata della Memoria, giornata sempre più scomoda, tra paragoni con altri crimini efferati e gare a chi sia stato più cattivo. Inviterei a una riflessione, lasciando da parte le ideologie, concentrandosi sulle vittimi dell’olocausto, Una riflessione sublimamente umana, senza strumentalizzazioni ideologiche. Sarà possibile?

Luca Craia

La baraonda case popolari e il regolamento da rifare e non si rifà



Abitazioni fatiscenti, degrado, spazi urbani sottratti alla legalità e al vivere civile, questi sono gli alloggi popolari, almeno la maggior parte di essi, a Montegranaro. Unità abitative spesso fuori dai limiti della decenza, ghetti istituzionalizzati dove gli extracomunitari vivono spesso al di fuori della legalità e dove è difficile persino fare controlli da parte delle forze dell’ordine, le case popolari costituiscono un enorme problema sotto diversi aspetti, un problema, però, seminascosto, poco evidente, che si manifesta solamente quando diventano teatro di fatti di cronaca.
Sono mesi che nessuno riscuote le pigioni degli alloggi di Santa Maria, vi sono alloggi occupati abusivamente, contatori elettrici fantasma che alimentano spazi comuni e non si sa chi paga, accatastamenti che non si sa se ci siano o no. Soprattutto c’è un senso profondo di abbandono, degrado, emarginazione e una pericolosa sensazione di illegalità. E tutto questo crea enormi disagi sociali, problemi di integrazione e una situazione di ordine pubblico difficile da gestire.
È tutto noto a chi di dovere, a chi decide, a chi amministra. Il Presidente del Consiglio Comunale, Walter Antonelli, ormai due anni fa, intraprese un percorso di riforma del regolamento di assegnazione degli alloggi, tra l’altro, nel frattempo, scaduto. Poi lo stesso Antonelli si è inspiegabilmente fermato e si è smesso di parlarne. Ma il problema rimane ed è molto serio.
È un problema che investe prima di tutto le persone che abitano quegli alloggi e che sono costrette a vivere in una situazione indegna di un paese civile. Poi c’è la questione dell’integrazione degli stranieri, ghettizzati e richiusi in una sorta di riserva indiana dove possono evitare il contatto e la contaminazione culturale positiva che ci sarebbe se fossero più distribuiti nel tessuto urbano. E poi esiste il problema di convivenza coi pochi Italiani che occupano questi alloggi, un problema sempre più serio e pericoloso, un problema che rischia di diventare una bomba a orologeria.
Forse è il momento che Antonelli riprenda in mano l’iniziativa abbandonata mesi fa, ma forse è anche il momento che chi ha responsabilità amministrative dirette prenda atto del problema, un problema che, comunque, conosce perché non può non conoscerlo, e si adoperi per risolverlo, prima di tutto mettendo mano ai criteri di assegnazione, e poi analizzando le singole criticità, le singole situazioni umane, per trovare una soluzione civile degna di un Paese moderno e democratico quale dovremmo essere. Anche perchè ci sono altri alloggi da assegnare e se i criteri permangono gli stessi rischiamo di innescare una situazione irrisolvibile.

Luca Craia

martedì 16 gennaio 2018

Azizi il macedone e la sua Castelluccio. Una storia d’amore tra l’uomo e la sua terra di adozione abbandonata dall'Italia.



La storia di Azizi, raccontata oggi dall’ANSA (leggi l'articolo) è una storia molto semplice e, come quasi tutte le storie semplici, diventa complessa e toccante. È la storia di un uomo che arriva in Italia dalla Macedonia nel 1991 e si stabilisce a Castelluccio di Norcia. Lavora e si inserisce nella piccola comunità per poi, sei anni fa, prendere in gestione il ristorante Sibilla, locale noto ai frequentatori di questo gioiellino dei Sibillini, locale che, come buona parte di Castelluccio, non c’è più perché spazzato via dal terremoto del 2016. Azizi è sfollato a Belforte del Chienti, ma continua ad andare nella “sua” Castelluccio diverse volte a settimana, nonostante arrivarci sia complicatissimo. Va in macchina fino a Gualdo per poi proseguire a piedi fino al paesino che domina l’omonimo altopiano. Lo fa perché non vuole perdere il contatto, perché lì ha le sue cose, perché quella ormai è casa sua e non ne vuole altre.
Ad Azizi hanno assegnato una SAE, ma solo sulla carta, perché a Castelluccio di SAE non c’è nemmeno l’ombra. Così il nostro amico macedone ogni tanto si porta la tenda e dorme nel sacco a pelo. La scorsa notte è anche nevicato, ma lui afferma di tollerare bene il freddo.
È una storia semplice, commovente. A me commuove l’amore che quest’uomo di quarantun anni prova per un paesino che è diventato la sua terra, che lo ha accolto e assorbito nel suo tessuto sociale. Commuove l’attaccamento e la voglia quasi disperata di avere ancora un futuro lì. E la commozione si trasforma in rabbia, perché per Castelluccio, a parte qualche proclamo, qualche stupidaggine detta qua e là, qualche promessa, qualche fantomatico progetto che è servito solo a qualcuno per polemizzare, non è stato fatto nulla, ma proprio nulla. E siamo a un anno e mezzo dal terremoto, un anno e mezzo di tribolazioni per gli agricoltori, un anno e mezzo di turismo perso, un anno e mezzo che sembra un secolo per un’economia che vuole ripartire ma che la burocrazia e chissà quale disegno politico imperscrutabile non vogliono rilanciare.
Vorrei che l’Italia intera provi a mettersi sotto la tenda di Azizi per una notte, anche in maniera virtuale, per far capire agli Italiani che non ci stanno raccontando la verità, che la ricostruzione per ora è solo una parola con un significato che sfugge, che fino a oggi abbiamo visto solo un sacco di nastri tagliati ma nulla di concreto. Fa freddo a Castelluccio in questi giorni. Vorrei che questo freddo arrivi a tutti, mentre guardano quei rassicuranti telegiornali nazionali che dicono che sta andando tutto bene. Non sta andando affatto tutto bene.

Luca Craia