mercoledì 8 marzo 2017

Preoccupazione per il Comitato Vivi in Centro: che fine ha fatto?



Ogni tanto mi domando che fine abbia fatto il Comitato “Vivi in Centro”. Lo ricorderete: l’anno scorso la portavoce di questo Comitato, Stefania Amici, ex Consigliere Comunale di Liberi Per Montegranaro ed ex braccio sinistro del Vicesindaco Ubaldi (ricordiamo che il braccio destro, anche un po’ bionico, è e sempre sarà Paolo Gaudenzi), face il diavolo a quattro contro il Presepe Vivente perché impediva a lei e ai numerosissimi militanti dello stesso comitato (almeno così disse lei, ma non abbiamo mai avuto modo di contarli), di arrivare fino a casa con la macchina per scaricare la spesa.
Me lo domando perché sono preoccupato. Staranno tutti bene? Che fine avranno fatto tutti questi cittadini paladini del centro storico e della sua vivibilità? Possibile che, ora che stanno per partire i lavori per viale Gramsci e di disagi ce ne saranno… eh se ce ne saranno…, non diano alcun segnale? Possibile che ora vada tutto bene? Se ne saranno accorti? Oh ragazzi, dateci qualche segnale che siamo preoccupati…
                                      
Luca Craia

Integrazione o sostituzione culturale. La politica sull'integrazione ha fallito. Rivediamola.



Leggevo stamattina un articolo su Il Resto del Carlino che narrava di una caso verificatosi a Montappone ma che rispecchia, anche secondo lo stesso giornalista, il quadro nazionale. Nella scuola per l’infanzia della patria del cappello, nove bambini su dieci sono stranieri. È un dato allarmante, non per motivi razziali come qualcuno starà già pensando, ma per tutelare gli stessi stranieri e la nostra sopravvivenza culturale. I conti sono facili da fare: se il 90% dei bambini che frequentano la scuola materna sono stranieri, è logico pensare che, per quanto la percentuale si possa abbassare al di fuori della scuola, nel prossimo futuro avremo una maggioranza di cittadini di origine straniera rispetto agli autoctoni italiani.
Una maggioranza che avrà una cultura diversa dalla nostra, almeno a quanto possiamo vedere oggi, nel senso che le etnie che sono giunte in Italia non si stanno integrando culturalmente. Per integrazione intendo il processo tramite il quale una persona, proveniente da luoghi e culture diversi, pur mantenendo le proprie radici culturali, assimila e fa sua la cultura del luogo dove va a vivere, diventando parte integrante della società che lo accoglie. Questo, in Italia, non sta succedendo o, almeno, succede in maniera molto parziale.
Le varie etnie giunte negli ultimi anni tendono ad autoghettizzarsi, per niente aiutate dalle istituzioni italiane che, per ovvi motivi di comodo, preferiscono creare quartieri-ghetto, scuole-ghetto e punti di aggregazione ben separati, nonostante sporadiche iniziative, lodevoli quanto isolate, e a volte ipocritamente autoassolutorie. Fare corsi di italiano per stranieri, per esemplificare, è cosa buona e giusta, ma se, nel contempo, gli stranieri vivono in palazzi di soli stranieri, in isolati di soli stranieri, in quartieri di soli stranieri, in classi scolastiche di soli stranieri, il corso di italiano diventa sterile e falso. L’integrazione richiede mescolanza, richiede contatto tra le culture e richiede che lo straniero assimili la cultura che lo ospita.
La contaminazione culturale è positiva ma non può prevedere il soccombere della cultura del paese ospitante o il suo snaturamento; quando c’è la convivenza tra culture diverse, la cultura autoctona va salvaguardata. E questo non perché essa sia migliore delle altre (anche se, nel nostro caso, ritengo quella occidentale, per quanto imperfetta, molto più evoluta di altre culture importate negli anni) ma perché è indispensabile evitare spaccature sociali che possano, nel lungo periodo, creare conseguenze disastrose.
Lo straniero che giunge in Paese che lo accoglie, trova una struttura sociale e regolamentare che è diversa dalla sua. Integrazione significa che lo straniero debba inserirsi in questa struttura senza cercare di cambiarla, accettandola e assimilandola. Se così non fosse, dopo pochi anni, specie in una situazione di calo demografico drastico come quello che si vive in Italia, si creerebbe una pericolosissima dicotomia tra la cultura radicata e regolamentata e quella nuova, con una ingestibile discrepanza comportamentale rispetto alla regola.
Nell’immediato, invece, i problemi sono evidenti: se si crea il ghetto, se si amplifica la distanza naturale tra le culture tenendole separate e non stimolando e incentivando la vera integrazione, si va allo scontro e all’alienazione dello straniero. Del resto è sotto gli occhi di tutti come gli immigrati di seconda o terza generazione non si stiano integrando ma tendano a fare massa critica con la loro stessa etnia o, al massimo, con autoctoni che vivono situazioni di alienazione sociale. È evidente che la politica di integrazione fin qui adottata ha fallito. Occorre rivederla in maniera drastica e renderla efficace.
                                      
Luca Craia

martedì 7 marzo 2017

La triste storia di Sahib, morto da solo e sepolto da solo a Montegranaro



Lo chiamo Sahib perché non so il suo nome, so solo le iniziali. Gli do questo nome perché so che era Indiano, quindi mi permetto di attribuirgli un nome diffuso in India. Ho ricostruito per sommi capi la storia di Sahib, quantomeno la sua storia recente, ed è una storia triste e ve la voglio raccontare, ovviamente usando un po’ di fantasia perché, lo ripeto, è una ricostruzione basata su documenti; ve la racconto perché ci pone nella posizione di capire anche cosa possa soffrire un uomo che lascia la sua terra per venire in Italia a cercare fortuna. E spesso non la trova.
Sahib non l’ha trovata. Quest’uomo di quarantotto anni compiuti da poco, la mia stessa età, è venuto in Italia a cercare lavoro. Immagino abbia lasciato in India una famiglia, alla quale inviava periodicamente gran parte di quello che riusciva a guadagnare. È venuto e magari ha trovato lavoro, un alloggio provvisorio, magari uno di quei bugigattoli umidi nel centro storico, magari una casa di campagna, una stanza in qualche scantinato. Solo, una vita solitaria, in un paese lontano, dove la gente parla una lingua che non conosci, che devi per forza imparare se vuoi vivere lì. E Sahib deve anche aver imparato un po’ di Italiano, se non altro per farsi capire, se non altro per fare tutte le carte e vivere qui da immigrato regolare.  
Immagino quest’uomo la sera, da solo, dopo una giornata di lavoro, a consumare una cena frugale in una stanza fredda. Lo immagino pensare alla moglie, ai figli lontani. E a farsi forza, per loro, per dargli un futuro migliore. Lo immagino nei giorni di festa, quando non si lavora, feste lontane dalla sua cultura. Lo immagino da solo, a casa, o in giro per il paese, un’ombra, un uomo invisibile.
Poi Sahib si è ammalato. È finito all’ospedale. Non so che malattia gli abbia preso, ma deve essere qualcosa di serio, perché Sahib è morto. È morto il 15 novembre del 2016 a Torrette, ad Ancona. È morto solo come un cane. Lo hanno messo in una cella frigorifera e hanno fatto partire la procedura. Sahib non aveva beni, non aveva niente. Non aveva familiari in Italia a cercarlo, a domandarsi dove fosse. Non lo ha cercato nessuno. Gli operatori hanno verificato che nessuno avesse rivendicato il cadavere. Il 23 novembre è arrivata a Montegranaro la nota degli Ospedali Riuniti di Ancona che comunicava il decesso del cittadino straniero S.B., residente a Montegranaro. Non essendoci nessuno a provvedere alle esequie, è toccato al Comune di residenza. Si è dato incarico a una ditta di pompe funebri e, dopo pochi giorni, Sahib è finito nel Cimitero di Montegranaro, in una fossa nella parte monumentale.
Chissà se in India hanno saputo? Credo di no, credo che ci sia ancora qualcuno, là, che attende una telefonata, una lettera, quel po’ di denaro che Sahib mandava una volta al mese. Alla fine forse capiranno, magari vorranno venire in Italia a cercarlo ma non avranno il denaro per farlo. Magari un giorno lo dimenticheranno, del resto non lo vedevano già da anni. Chissà.
È una storia triste che ho voluto raccontare, magari usando un po’ di fantasia, per parlare della tristezza della vita di quest’uomo, venuto in cerca di un sogno, attratto da chissà quali leggende, quali miti, per trovare la morte in un Paese lontano, pieno di difficoltà, non più in grado di accogliere chi cerca fortuna come lui. È un Paese accogliente, l’Italia, lo è sempre stato. E in tempi diversi si poteva davvero cercare fortuna, magari la si poteva trovare. Ma oggi la gente che viene per lavorare trova destini avversi, difficoltà enormi, e spesso trova finali tristi per le loro storie. Anche di questo dobbiamo tenere conto quando parliamo di immigrazione. Perché se non siamo in grado di dare una vita degna a chi accogliamo, forse è il caso di trovare altre soluzioni, altre strade. Non solo per noi, anche per noi, ma anche per loro.
                                      
Luca Craia