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domenica 29 gennaio 2017

SS. Filippo e Giacomo. Siamo solo all’inizio.



Stasera sono tornato a messa nella chiesa dei SS. Filippo e Giacomo. Non ci andavo a messa da quando ero bambino, da quando servivo messa con don Manlio. Dalla sua riapertura c’ero entrato solo una volta perché avevo dei turisti in visita e li ho accompagnati. Ma facevo fatica a entrarci, perché sono uomo di carne e sangue, e la storia recente della chiesa mi aveva ferito. Una chiesa che ho molto amato, dai tempi di don Manlio, appunto; la chiesa di mia nonna, del battesimo di mio fratello.
Dovevo tornare in quella chiesa, chiusa per decenni, dopo le lotte che ho condotto per poterla salvare dal potenziale crollo, crollo che sarebbe senza dubbio avvenuto con l’ultimo terremoto se non si fosse intervenuti per ristrutturarla e, consentitemi senza falsa modestia, credo di aver contribuito anche io a salvarla, anche custodendola, prima del restauro, come fosse casa mia. Stasera si parlava di poveri di spirito che erediteranno il Regno dei Cieli e so che io non sarò fra di loro, ma sono consapevole di quello che ho fatto e dei risultati che ne sono conseguiti. Ciononostante, alla sua riapertura, sono stato escluso totalmente da ogni decisione e la cosa, essendo io di carne e sangue come sopra, mi ha ferito. Ora sto facendo pace con me stesso e rimarginando certe ferite, per cui ho voluto tornarci, a messa, a pregare il mio Dio, e l’ho fatto con grande emozione.
SS. Filippo e Giacomo non è a posto per niente. È in salvo, solida, non rischia più di crollare al primo soffio di vento o al primo accumulo di neve. L'intervento ha ripulito la volta e le pitture alte, ma ha escluso gli altari, le tele, i tabernacoli, la pala, gli affreschi del presbitero, ripuliti ma non restaurati. C’è tantissimo da fare: l’Immacolata dell’altar maggiore è in pessime condizioni. Abbiamo un progetto di restauro, fatto redigere da Arkeo, e servono circa 10.000 Euro. La Madonna del Carmine è messa anche peggio. L’altare laterale di destra è semidistrutto. Gli stucchi bassi sono massacrati. A spanne servono almeno 200.000 Euro. Che si fa?
SS.Filippo e Giacomo è l’unica chiesa superstite dal sisma, una specie di miracolo: i restauri, quelli che ho invocato per anni e che infine sono stati fatti, l’hanno salvata. Ma il resto è ancora tutto da fare. Che fa Montegranaro? La generosa, l’opulenta Montegranaro? Spero che non la lasci andare, non la lasci così, a metà, ferita. Intanto un pezzo tornerà presto al suo antico splendore, il Sacello Lauretano che stiamo restaurando con i fondi di Arkeo. Ma il resto non può essere lasciato così. Forza, diamoci da fare.
                                      
Luca Craia

lunedì 9 maggio 2016

Don Dante Filomeni: CENNI STORICO-ARTISTICI DELLA PRIORALE DEI SS. FILIPPO E GIACOMO IN MONTEGRANARO




Questo scritto di don Dante Filomeni che ho ritrovato e che risale al 1966, pur fornendo alcune informazioni imprecise, da un altro punto di vista ci è prezioso che capire la storia della priorale, della “cripta” e il suo restauro degli anni ’60. Ve lo ripropongo all’indomani della riapertura della chiesa di SS.Filippo e Giacomo come documento testimoniale da conservare. Le foto sono quelle originali fatte scattare da Don Dante Filomeni a Vincenzo Anniballi.

Luca Craia



Come non si può Parlare di Montegranaro senza risalire all’antica VEREGRA così non si può parlare dell’origine del cristianesimo nella nostra zona, senza mettere in debita luce la funzione della Priorale che si intitola ai SS. Filippo e Giacomo, venerati come Patroni del luogo dagli antichi Veregnani, i primitivi abitatori della nostra terra.
Dopo gli attenti studi di archeologi insigni non v’è ormai più alcun dubbio che l’antica Veregra, di cui parla Plinio e di cui si trovano cenni frequenti sia nei documenti medioevali sia in quelli di epoche posteriori, sorgesse alle falde della collina su cui poi, in epoche più recenti, venne costruita la nostra Montegranaro. Ne sono attestati inconfutabili i resti di vetuste mura castellane tuttora esistenti e visibili lungo la strada che va da Porta Romana alla Borgata di Santa Maria, resti che costituiscono la zona da noi con giustificato orgoglio chiamata “archeologica “.
Il prof. Don Guido Piergallina segnalò a suo tempo alla Sopraintendenza alle Antichità di Ancona di resti di una necropoli, la cui struttura appare perfettamente identica a quella di numerose altre costruzioni romane del Piceno: solide volte a seminterrato adibite alla conservazione di derrate alimentari, cereali, frumento, ecc.
La zona, è notorio, ha sempre prodotto grano in abbondanza e questo giustifica la presenza di numerosi resti di granai, vasti depositi, dove il frumento, prodotto dagli “AGRI FRUMENTARI” veniva raccolto e conservato. Fin dai tempi delle guerre Annibaliche e via via fino ai periodi delle guerre civili e delle prime campagne dell’Impero i Romani sentirono il costante bisogno dell’approvvigionamento delle truppe e risolsero quindi i loro problemi logistici coll’oculatezza ed il senso pratico, che sono le costanti della loro linea di condotta e della loro politica. Le legioni romane che passavano di continuo lungo le grandi strade consolari, SALARIA e FLAMINIA per raggiungere poi la via EMILIA, che collegava la Capitale al settentrione (BOLOGNA MILANO), si rifornivano di derrate lungo il viaggio, prelevandole dai depositi che essi avevano a tal uopo costruiti. L’origine della nostra Veregra, va quindi inquadrata in questa cornice storica. Secondo testimonianze dello storico Plinio, l’Imperatore Augusto, sempre per esigenze logistiche, tolse una parte de! Territorio alle tre colonie circostanti “FIRMUM – PAUSULA – CLUANA” (quest’ultima poi non era colonia bensì metropoli), per formare un vasto” Ager Frumentarius” che, per la sua estensione ed importanza, prese il nome di “VEREGRA” quasi ad indicare un ager frumentarius per antonomasia.
Sempre seguendo le testimonianze di Plinio, i Veregnani, pagani ed idolatri come tutti gli altri popoli circostanti, adoravano con particolare culto la dea “Cerere” (dea delle messi) ed a lei, che consideravano nume tutelare della loro terra, eressero un tempio. Tutto questo rientra nell’ordine normale delle cose perché ormai noi sappiamo che Cerere, i cereali, il frumento, Veregra, il grano e Montegranaro sono concetti concreti che si allineano logicamente lungo il filo conduttore di questo modesto cenno storico.
Agli albori del cristianesimo, una costituzione imperiale del 14 Novembre 435 ordinava di non demolire i templi pagani, il più delle volte veri capolavori artistici, e la cui demolizione portava ad ingenti spese. Era ammesso che tali templi fossero “cristianizzati”, il che avveniva con il semplice impianto della croce.
Anche il tempio di Cerere nella nostra Veregra venne cristianizzato ed il culto della dea sostituito da quello dei SS. FILIPPO e GIACOMO, che vennero da allora venerati come i patroni del paese. La loro festa, come l’antica festa di Cerere, si celebra il 1 Maggio.
La priorale dei SS. F. e G. deve giustamente considerarsi la prima chiesa cristiana del luogo: il primo centro di diffusione del cristianesimo nel nostro paese. Dopo la caduta dell’impero romano d’occidente, in quel periodo oscuro che va fino al secolo IX, Veregra dovette subire la stessa sorte toccata alle altre colonie romane; dovette conoscere la gravosa ed infausta dominazione dei Goti, il peso del giogo bizantino (l’impero aveva allora sede nella Vicina Ravenna) e la lunga oppressione dei Longobardi. Dell’antica prosperosa e brillante colonia romana non rimasero che i ruderi sepolti da fitte boscaglie o mezzo sommersi dagli acquitrini in una desolata campagna incolta. Fu appunto contro questo stato di squallore e di rovina che si prodigarono, agli albori del IX secolo, i primi Monaci Benedettini Farfensi. Essi svolsero un’intelligente opera di risanamento agricolo, esercitando la loro giurisdizione attraverso i priori di S. Vittoria in Matenano.
Difatti, secondo la testimonianza del “Chronicon Farfense”, pubblicato per la prima volta dal Muratori, vennero a far parte dello stato farfense i templi di SS. Filippo e Giacomo, S. Maria in Montaspice e S. Pietro. I Benedettini venivano così ad estendere la loro zona di influenza sia nel campo materiale che spirituale, riportando all’antica fertilità e ricchezza i terreni che dall’Ete morto si affacciano sul Chienti. Per circa cinque secoli questi Monaci si conservarono uniti nella professione della stessa Regola, fino a che verso il mille la loro compagine venne disgregandosi per suddivisioni in gruppi; l’osservanza della Regola venne meno e si rese necessaria l’opera dei Santi riformatori. E’ la volta delle congregazioni Benedettine, che si ripartirono i vari possedimenti dell’ordine. Da noi sorse, per opera di S. Silvestro da Osimo, la Congregazione dei Silvestrini; la Priorale dei SS. Filippo e Giacomo passò dall’abate di S. Vittoria in Matenano ai religiosi della Riforma di S. Silvestro (anch’essi benedettini).
Le fonti silvestrine ci danno per certo che S. Ugo fu mandato a Montegranaro da S. Silvestro per fondare un monastero, che divenne poi il centro del paese; fu attorno al suo monastero infatti che sorsero i primi edifici di agglomerato urbano: qualche scuola, un lazzaretto (o ospedale) e talune di quelle pie istituzioni che svolsero un’opera tanto benemerita nel corso dei secoli, come ospizi per vecchi, monti di pietà ecc. ecc.
I Silvestrini lasciavano il Monastero, dove trascorrevano la maggior parte del giorno e della notte nella preghiera e nella meditazione sulle divine verità, solo per recarsi nelle campagne circostanti a proseguire quella tenace ed intelligente opera di risanamento agricolo già iniziata dai Farfensi; essi continuarono a disboscare, a prosciugare paludi, a rivendicare alla fertilità terreni divenuti malsani per incuria ed abbandono. Essi, in una parola, mettevano in pratica il progetto del grande fondatore dell’ordine “ORA ET LABORA”.
I Silvestrini rimasero a Montegranaro fino al principio del XVI secolo; ad essi seguirono i sacerdoti secolari alla dipendenza dell’Arcivescovo e Principe di Fermo. Il titolo dei parroci fu quello di Priore perché il Priore era la prima dignità del Capitolo dei Silvestrini.
L’archivio parrocchiale conta come primo Priore secolare Annibal Caro (1539) poeta e letterato traduttore in versi dell’” ENEIDE” di Virgilio. Bellissime le sue lettere, scritte ad amici, parenti e ad alti personaggi del tempo, le quali, oltre al pregio della elegante semplicità, hanno anche quello di essere un raro documento storico. Due di esse sono conservate nel nostro archivio parrocchiale. Gli successe nel 1553 il nipote Fabio.
L’attuale casa parrocchiale, sede dei Priori, fu costruita da Annibal Caro e ne fa fede lo stemma sovrastante la porta di ingresso; la costruzione è stata dichiarata monumento nazionale in omaggio all’insigne Priore letterato. L’attuale chiesa parrocchiale invece fu costruita, come risulta da un inventario ottocentesco conservato nell’archivio storico arcivescovile di Fermo “… DALLA BUONA MEMORIA DELPRIORE CIRO LETI… nel 1760”.  La costruzione a volta e con ordine composito venne eretta sopra le mura della vecchia chiesa “… VERAMENTE ANTICHISSIMA, POICHE’ DICESI CHE IL TEMPIO IVI SORTO FOSSE IN ONORE DELLA DEA CERERE “.
Sta di fatto che la vecchia chiesa di S. Ugo venne chiusa al culto nel l760; da questa data in poi l’edificio fu lasciato in preda agli oltraggi del tempo e dell’abbandono. I danni provocati dall’umidità avevano alterato i pregevoli affreschi fino al punto da renderne irriconoscibili le immagini rappresentate. All’ardua opera di restauro si accinse il Priore Sac. Dante Filomeni, trasferito nel 1959 dall’insigne Collegiata Santuario di S. Vittoria in Matenano alla Priorale dei SS. Filippo e Giacomo. I lavori vennero iniziati nel 1960 e portati a termine nel 1966. Non fu cosa da poco: si dovettero demolire vecchie pavimentazioni, praticare vespai in pietrame di calcestruzzo, tagliare e riprendere ampie sezioni di muratura, costruire una nuova pavimentazione, una nuova scala di accesso alla Cripta un nuovo altare. Particolarmente delicata fu tutta la tecnica della sottofondazione per iniezioni di cemento e della ripresa degli intonaci e non meno importante, dal punto di vista estetico, la costruzione della gradinata esterna con recinzione in ferro battuto, degli infissi (anche questi in ferro battuto) della zoccolatura in travertino per le scale interne. Tutti lavori che, condotti con pazienza e passione, hanno avuto il merito di riportare la Cripta di S. Ugo alla sua integrità e alla primitiva bellezza, restituendo al paese un tesoro d’arte, che minacciava di rimanere sepolto per sempre, mentre, tornato alla luce e al suo antico splendore, non mancherà di attirare su Montegranaro la curiosità e l’attenzione di intenditori, amatori e turisti.
Non sarebbe giusto, a questo punto, passare sotto silenzio l’opera del compianto Priore D. Leopoldo Giardini; tutti lo ricordano per le sue vivaci prediche e per i fervidi appelli, che lanciava dai pulpiti di varie città d’Italia. E’ da lui che abbiamo imparato l’alto senso del DECORO della Chiesa che egli curò con encomiabile zelo e che volle BELLA ED ARTISTICA COME SI CONVIENE ALLA VERA CASA DI DIO E DELLA PREGHIERA. Oltre alle notizie storiche che rendono celebre la Cripta di Sant’ Ugo, vi sono notizie artistiche, che la pongono tra i capolavori più importanti ed illustri della nostra Italia. Trattasi di rarissimi affreschi pregiotteschi che, per i loro caratteri intrinseci, fanno giustamente pensare ad una scuola benedettina quasi perfetta, che si ispira all’arte orientale, specialmente egiziana o copta. Tali influssi sono dovuti alle molteplici relazioni della nostra Penisola con l’Oriente, specialmente durante le crociate. Possiamo dividerli in due cicli storicamente ed artisticamente ben distinti.
Il primo di essi comincia con un affresco recante la data 1299, ed una scrittura gotica, che dice: “HOC FRATER FECIT…” Vi campeggia un S. Paolo dal volto virile e vigoroso, in atteggiamento deciso, con la spada in mano, secondo l’iconografia tradizionale ed un’altra figura di orante.
Seguono: Dioscoro, padre di S. BARBARA, in atto di riporre la spada nel fodero, dopo aver mozzato il capo alla vergine figlia; l’Imperatore Massimiliano seduto ancora in trono con la corona in capo, che gli ha ordinato di eseguire l’empia sentenza: due Santi, che certamente rappresentano “S. BENEDETTO E S. SCOLASTICA”.
A destra, nella parte superiore, troviamo una Madonna e nella inferiore le tre Marie, di squisita fattura, tratteggiate con grande purezza e linearità, in pochi ma vividi colori.
Tutti questi pregevolissimi affreschi sono stati trasportati, con magistrale tecnica, su supporti lignei e restaurati con intelletto di amore da due esimi artisti veneti: “Prof. Antonio Trevisan e la Prof. a Giuseppina Manin “, nel 1960.
Nella parte Nord figurano altri affreschi appartenenti anch’essi al I ciclo e che vennero restaurati nel 1963 da due artisti della scuola Fiorentina: “Prof. Mirando Giacomelli ed il Prof. Aldo Frosini”.  Trattasi di un Santo, forse S. Giovanni Evangelista, una Natività del Cristo ed altri personaggi: natività disgraziatamente mutilata dall’apertura d’una finestra. Ci viene poi incontro una grande ADORAZIONE DEI MAGI. Pure nei colori attuali, chiare e precise sono le linee dei cammelli e dei tre Re, vestiti di ricchi abiti, nel volto dei quali si legge, con l’attonito raccoglimento, una trepida speranza.
Ancora più notevole appare un affresco, che ci rappresenta il “BATTESIMO DI GESÙ”. Attraverso l’acqua, disegnata con la simmetrica accuratezza d’un velo prezioso secondo una tradizione già risalente ai bizantini, traspare la stupenda figura del Cristo, nella quale, su ogni valore cromatico, predomina il tratto nitido del disegno, l’armonia plastica del corpo ignudo, rappresentato in atteggiamento raccolto, nel volto grave, di mirabile forza espressiva, idealmente vicino a tante raffigurazioni e del Cavallini e del Giotto.
GLI ALTRI AFFRESCHI APPARTENGONO AD UN CICLO POSTERIORE.
Più in basso, sovrapposto in parte sulla cornice del precedente, è un piccolo riquadro che ci presenta la Crocifissione tra la Madonna e S. Giovanni, con gli atteggiamenti propri di tante pale di altare del XIV e XV secolo.
Tra quelli della parete destra si ammira un grande riquadro pentagonale della CROCEFISSIONE, ove il CRISTO MORENTE domina maestoso, come figura centrale, sia quale fulcro geometrico della composizione sia (ed ancora di più), quale punto di convergenza, dei messaggi profetici; tutt’attorno, infatti, si affollano figure di angeli, di profeti, di re, e come eco vi risuonano i versetti delle sacre scritture.
Accanto a questo è situato ”L’ESALTAZIONE DEL SS. SACRAMENTO”.  In alto, attorno all’ostensorio di fattura gotica, si sviluppano motivi floreali e, più in basso, sono rappresentate due figure di santi Domenicani, dei quali permangono solo i volti, sereni e dolcissimi, dall’incarnato perfetto.
Inoltre si ammirano una magnifica tela del Barocci (Federico Fiori di Urbino) rappresentante la “CIRCONCISIONE “; un affresco del 1517 con la Madonna ed il Bambino circondata da Angeli, che sembrano ispirati a quelli di Melozzo da Forlì; un Sant’Andrea da Avellino del XVIII sec., colto da malore ai piedi dell’altare, nell’atto stesso di iniziare Ia SS. Messa. QUESTE TRE OPERE FURONO RESTAURATE NEL 1963, a cura del Priore Filomeni, dalla sopra nominata scuola Fiorentina. IL DIPINTO DEL BAROCCI ha il pregio rarissimo di mettere in luce in una mirabile sintesi la perfezione e la purezza della linea, la vigoria e la robustezza dei lineamenti ed il calore dei colori (avvicinandosi in questo al CORREGGIO), i quali, come vaporosità atmosferica, sembrano avvolgere tutte le cose e riscaldare perfino le ombre.
L’appartenenza degli affreschi al periodo gotico sarebbe sufficiente ad attirare I’interesse degli studiosi di storia d’arte. Ancora più colpisce l’osservatore attento la bellezza armoniosa di talune raffigurazioni, ove paiono ritrovarsi tutta la grazia, la forza comunicativa e la purezza di linee, che siamo soliti gustare in tante opere fiorite nella nostra Italia in quel prestigioso e lontano periodo che ha reso celebre la Patria nostra agli occhi di tutto il mondo.
Il ”CRIPTOPORTICO” di S. UGO, come lo chiamò il BACCI, quel monumento unico esistente in ITALIA per la sua Volta a botte, estremamente semplice, si può dire che sia il . COMPENDIO DI TUTTA LA TEOLOGIA” perché in esso si raffigurano, attraverso un’arte finissima, quasi tutti i dogmi di nostra santa Religione.
La Priorale dei SS. Filippo e Giacomo annovera tra i suoi figli migliori, avuti in gran numero lungo il corso dei secoli, due fulgide gemme, che onorano il cielo di nostra madre CHIESA:
1) S. SERAFINO, che vi nacque nel 1540 da GEROLAMO e da Teodora Giannuzzi. Gli fu imposto, nel Battesimo, il nome di Felice. La casa, dove nacque il Santo, era sita in VIA SOLFERINO n.42. Vestì I’abito di S. Francesco nel 1558 e nell’anno successivo fece la professione solenne. Morì ad Ascoli Piceno, dopo una vita tutta trascorsa nell’ardore della carità verso Iddio ed il prossimo. Per i molteplici miracoli, operati dopo la morte, Urbano VIII ne introduceva la causa della Beatificazione, mentre lo dichiarava “BEATO” il 19 Agosto 1719 CLEMENTE XI. Il 16 Luglio 1767 Clemente XIII lo proclamava Santo.
2) IL CARDINALE DOMENICO SVAMPA. Nacque in questa Prioria il 13 Giugno 1851. Dopo compiuti i suoi studi superiori prima presso il nostro Seminario Arcivescovile di Fermo, poi presso il Seminario Pio in Roma, avendo conseguito le lauree in filosofia, in teologia ed in Diritto utroque, ordinato sacerdote, insegnò a Fermo teologia e diritto. Nel 1881 tenne la cattedra di diritto aII’APOLLINARE DI ROMA. Nel 1887, fu nominato Vescovo di Forlì. Nel Conclave del 18 Maggio 1894, Papa Leone XIII, lo elevava alla dignità della sacra Porpora, creandolo Cardinale e destinandolo a BOLOGNA, come Arcivescovo. Appena quarantenne, il 30 Settembre del medesimo anno, faceva il suo solenne ingresso nella Metropoli Emiliana. Vi moriva, dopo tredici anni, il 10 Agosto 1907, all’età di 56 anni. Il suo ricordo a Bologna è vivo come ieri e non può essere altrimenti; la memoria di un santo uomo sfida anche le leggi inesorabili del tempo.
Sarebbe troppo lungo enumerare altri illustri personaggi, che hanno, con le loro opere, onorato questa Prioria sia nel campo dell’arte, sia in quello della fede e beneficenza. Si lascia ad altra persona più competente questo compito, quando darà prossimamente alle stampe una monografia, che illustrerà più compiutamente la storia di MONTEGRANARO.
Montegranaro trovasi a m. 273 sul livello del mare ed è sito sulla rotabile che congiunge Fermo (distanza Km.15) a Macerata (distanza Km. 2l). La stazione scalo di Montegranaro è CIVITANOVA MARCHE, che dista Km. 16. Il turista e lo studioso vi trovano quindi facile accesso.
 L’autore, con animo grato e devoto, dedica questo opuscoletto, frutto di grande amore per la sua terra natale, all’ANGELO DELL’ARCHIDIOCESI DI FERMO MONS. NORBERTO PERINI, perché dica all’amato Pastore non solo la sua personale stima e devozione, ma anche quella di tutti i Montegranaresi, che sempre hanno ammirato il suo indefesso zelo apostolico, non disgiunto a grande carità cristiana.

MONTEGRANARO. Festa dei Patroni SS. Filippo e Giacomo.
Anno del Signore 1966.