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venerdì 11 dicembre 2015

Le Storie di Monte Franoso – Tutti al Cimitero!


Capitò, a Monte Franoso, che il custode del Camposanto morì in ancor giovane età. Questo causò un bel po’ di problemi in quanto, per un lungo periodo, non fu assunto nessuno al suo posto e il cimitero diventò una mezza giungla. Così, vista la difficoltà ad assumere un nuovo custode (che costava si e no 30.000 euri all’anno) si pensò di fare una gara di appalto per far fare i lavori cimiteriali a una ditta esterna, con una base d’asta di quasi 60.000 euri all’anno. Nessuno capì bene quale fosse la convenienza ma in molti capirono chi ci guadagnava.
Infatti a concorrere, tra le varie ditte, ce n’era una che apparteneva, anche se non ufficialmente, a un membro del partito di maggioranza relativa in consiglio comunale. Non ufficialmente, dicevo, perché la ditta era intestata al genero, ma in un paesino come Monte Franoso certi particolari ti sfuggono solo se te li vuoi far sfuggire. Così come ad alcuni non sfuggì il fatto che il fratello del suocero del titolare della ditta in questione, nonostante idee politiche manifestatamente opposte a quelle della giunta che comandava a Monte Franoso, da qualche tempo si sperticava di elogi al vicesindaco su Facebook, e addirittura minacciava di prendere a botte chi osava criticarlo.
Fatto sta che si giunse all’apertura delle buste e, sorpresa sorpresa, l’offerta più bassa era di un’altra ditta. Dopo qualche istante di panico si presero immediate contromisure: l’offerta vincente era troppo bassa. Eccesso di ribasso. Bocciata. E così il suocero facente parte del partito di maggioranza si prese il cimitero, costò alla collettività quasi il doppio di quanto si pagava prima ma nessuno ebbe da ridire. Eccetto forse la ditta che fu bocciata che pare fece ricorso ma di cui gli esiti ancora non si sanno.

Luca Craia

giovedì 16 gennaio 2014

I Racconti della Marca Bassa - Mariopanza



Quando Mario si presentò la prima volta in classe tutti gli altri bambini capirono immediatamente che era diverso da loro. Lo capirono più che altro dal colore del grembiule che, invece che essere nero come quello che tutti loro portavano, era azzurro. Mario veniva da un paese della provincia, ma molto più a sud, e lì aveva fatto le elementari fino alla quarta. Poi i suoi si erano trasferiti e lui ora si ritrovava addosso gli sguardi incuriositi e divertiti di una ventina di sconosciuti. Il fatto che provenisse da un paese del sud del Piceno era il secondo fattore di differenza: l’accento era chiaramente dissimile a quello degli altri. A quell’epoca la difformità di cadenza si notava molto più di adesso: ora siamo tutti cosmopoliti, mischiati, e puoi sentire da un orecchio qualcuno parlare romanesco e dall’altro uno che parla cinese pur stando nel cuore delle Marche. Allora invece i paesini erano ben chiusi su se stessi e quando arrivava uno di fuori – e per fuori intendo tutto quello più lontano di un raggio di cinquanta chilometri - lo sgamavi alla prima parola. Il terzo fattore di differenziazione tra Mario e i suoi nuovi compagni era il suo enorme stomaco. Nessuno sapeva allora che si trattava di una malattia molto grave che da lì a qualche anno lo avrebbe ucciso. Era solo un elemento fisico notevole, ridicolo ai loro occhi e, con la sublime cattiveria di cui soltanto i bambini sono capaci, lo chiamarono già dalla ricreazione “Mariopanza”.
            Mariopanza era timido e riservato, non intelligentissimo, buono di cuore ma diffidente verso il prossimo, forse perché il prossimo raramente si dimostrava ben disposto verso di lui. Così si isolò e non fece amicizia con nessuno della sua nuova classe. Passavano i mesi ed era sempre più solo. Si innamorò alla follia di Miriana, la ragazza più carina, che era anche il capo (la capa) delle femmine e che aveva un caratterino che te la raccomando. Vuoi per la sua innata timidezza vuoi perché lei non era certo facile da avvicinare per un introverso cronico come lui, Mariopanza esprimeva il suo amore con l’adorazione estatica e statica. Passava il suo tempo a guardarla. In quanto a parlarle nemmeno ci pensava.
            Capitò che un giorno, a ricreazione, scoppiò una lite per motivi ancora incomprensibili – ma a quell’età, si sa, le liti sono quasi sempre incomprensibili, e non solo a quell’età - tra un bambino della classe di cui stiamo raccontando e un altro di una classe attigua, sempre quarta elementare. La lite si estese tra i compagni dell’uno e dell’altro e la rissa fu evitata solo dal suono della campanella che rimandava tutti in aula. Ma non era finita lì. Alla fine della scuola un gruppo di bambini dell’altra classe si mise ad attendere fuori dal portone quelli della classe di Mariopanza. La rissa, evitata a ricreazione, scoppio con tutto il suo furore alle 12,30. E furono botte da orbi e insulti. Tutto regolare insomma. Finchè Antonella, l’omologa di Miriana nell’altra classe, capa capessa di tutte le femmine e un po’ anche dei maschi, decise che, per rinforzare la sua figura di condottiera suprema in battaglia, avrebbe dovuto tagliare la testa al nemico abbattendone il comando. Armata di un ombrellino rosso vivo, alzandolo sopra la testa con fare minaccioso, si avventò verso Miriana decisa, forse, a romperglielo in testa.
            Mariopanza, come sempre, stava di lato, non partecipava. Osservava la scena con quei suoi occhioni tristi e vigilava attento sull’incolumità dell’amato bene. Si accorse subito delle intenzioni della capessa avversaria e, per la prima volta nella sua carriera di compagno di scuola e innamorato segreto della suddetta, intervenne. Lo fece con impeto, decisione e anche un po’ di incoscienza. Si lanciò contro la ragazza armata di ombrello, glielo prese con uno strattone secco facendola precipitare all’indietro e fece a lei quelle che lei voleva fare all’altra: glielo ruppe in testa. L’ombrello era di poco valore, leggerino, si accartocciò prendendo la forma del cranio della povera bambina ma quest’ultima non ebbe gravi conseguenze: fu più ferita nell’orgoglio che sul capo. Tutti videro la scena e ogni tafferuglio si fermò all’istante. Quando ci si rese conto che Antonella non s’era fatta (quasi) niente scoppiò una fragorosa risata collettiva. La rissa fu immediatamente accantonata e fu pace immediata e duratura. Qualcuno soccorse la bimba ombrellata, i più si scompisciavano dalle risate e molti presero a dar pacche sulle spalle a Mariopanza, complimentandosi con lui per il gesto eroico. Miriana gli diede un bacio sulla guancia. Il giorno dopo Mariopanza tornò a sedersi al suo posto, non parlò con nessuno e nessuno parlò con lui. Nei secoli dei secoli.

venerdì 10 gennaio 2014

I Racconti della Marca Bassa - Giù dai monti




Marino arrivò in paese alla fine degli anni cinquanta con due paia di scarpe e una valigia di cartone.  Arrivò dalla montagna attratto, come tanti a quell’epoca, dalla possibilità di lavoro e ricchezza che l’incipiente miracolo economico. Arrivò per evitare una vita da contadino a tirar via pietre da un campo arso e avaro. Arrivò con la speranza o certezza di un avvenire migliore. Molte famiglie del paese in quel periodo affittavano camere a pensione a questi ragazzotti montanari un po’ rustici ma bravi e Marino si accasò da Nanni pattuendo un fitto equo per entrambi. Un suo parente, cugino della madre, che era arrivato qualche anno prima e che aveva messo su famiglia, gli aveva trovato un posto da garzone in fabbrica. Non sapeva fare nulla Marino, non aveva la minima idea di come si facesse una scarpa, ma aveva mani buone, buona volontà e capacità di apprendere veloce. Così gli fu facile pagarsi la pensione, il mangiare, e qualche panno per vestirsi un po’ più decente di quelli che s’era portato dietro dalla montagna.
Quelli del paese trattavano con la dovuta diffidenza i forestieri venuti a trovare lavoro, un po’ come oggi trattiamo gli immigrati e gli extracomunitari. Marino, però, era di carattere giocoso, buono di indole e di spirito pronto. E poi il suo accento era sì leggermente montanaro ma non più di tanto, cosicché dopo qualche settimana già non si capiva quasi più che fosse “di fuori”.  Non gli ci volle molto quindi per farsi amici dei giovani del posto. E cominciò a frequentare delle ragazze. A quell’epoca queste cominciavano ad emanciparsi, le gonne si accorciavano, gli abiti si facevano colorati e i caratteri più aperti. Così nella comitiva di Marino ce n’erano due o tre mica male. Carine, simpatiche e senza tanti pregiudizi.
Lorella era forse la più bellina, con quell’aria da ragazzetta e gli occhi maliziosi. A Marino piaceva proprio e sembrava che anche lui non le fosse del tutto indifferente. Lorella era figlia di operai ed aveva studiato fino alla terza media. Per Marino, che s’era fermato alla quinta elementare, era intelligente e colta oltre che bellissima. Non c’era mai stato nulla tra loro se non qualche battuta e un ballo ad una festa, ma già Marino fantasticava di matrimoni. E così sapeva che non era cosa facile, operai tutti e due, con la sua famiglia che dalla montagna certo non avrebbe potuto aiutare più di tanto e quella di lei che tanto meglio non se la passava: sette figli e uno stipendio.
Mimma era una ragazza bruttina, un po’ in carne, col seno prosperoso ma le gambe grosse e tozze. Aveva gli occhi azzurri ma lo sguardo cattivo. Mimma era figlia di famiglia benestante, commercianti i suoi, e aveva solo due fratelli. Aveva una bella dote e delle belle prospettive. Aveva anche una cotta micidiale per Marino che, però, non se ne avvedeva né, anche nel caso se ne fosse reso conto, avrebbe avuto alcun interesse, innamorato ormai di Lorella. Ma Mimma era ragazza tenace e quando voleva una cosa era abituata ad ottenerla. Così una sera, ad una festa che Marino aveva un po’ esagerato col vino, Mimma ottenne quello che voleva o, almeno, credette di ottenerlo.
L’atto fu consumato in un campo appena fuori le mura. Mimma toccò il cielo con un dito. Marino al mattino sì e no che se ne ricordava. Ma dovette ricordarsene presto perché il grembo di Mimma cominciò a lievitare e quei tempi su queste cose non si scherzava mica. Cominciarono subito i preparativi per il matrimonio. La famiglia di lei la prese piuttosto bene, considerando che la figlia difficilmente potesse puntare ad un partito migliore bruttina e sgraziata com’era. E poi il montanaro non era affatto male: bravo, educato e pure caruccetto. La famiglia di Marino non disse né a né o. L’unico chiarimento che il padre di Marino tenne a precisare fu che loro non avevano una lira e che il figlio si doveva arrangiare. Il padre della ragazza aveva una casa sfitta e la fece ripulire e risistemare per la figlia. Per il futuro genero aveva pronto un posto in bottega. I fratelli della sposa picchiarono un paio di pettegoli che avevano da fare battute sulla gravidanza della di loro sorella e tutte le chiacchiere di paese cessarono.
Ma Marino non era affatto felice e quando per strada incrociò Lorella e questa non lo salutò abbassando lo sguardo si sentì morire. Prese la lambretta che s’era comprato con i primi risparmi e andò a casa in montagna. Suo fratello maggiore gli disse la sua: non doveva sposarsi se non voleva. E quanto Marino gli disse che i fratelli della sposa l’avrebbero massacrato il suo di fratello gli consigliò di scappare a Milano, dallo zio Paolo che da anni viveva lì ed aveva un’avviata attività di commercio. Marino manco se lo ricordava lo zio, ma prese il telefono pubblico del bar della piazza e, armato di coraggio e disperazione, telefonò allo zio Paolo raccontandogli la sua tragedia. Lo Zio si disse più che disponibile di ospitarlo. Marino non tornò al paese ma andò diretto alla stazione e prese il primo treno per Milano.
La settimana successiva il caso del montanaro scomparso rimbalzata di porta in porta nel paese. Non si parlava d’altro e non c’era minaccia di botte o ghigni duri dei ragazzotti fratelli di Mimma per calmare lo scandalo. Nessuno sapeva dove fosse Marino ma sembrava evidente che fosse scappato. La Lambretta era stata notata davanti alla stazione e quello era chiaro indizio di fuga, non di disgrazia. I fratelli della sposa erano a dir poco infuriati: occorreva trovarlo e occorreva riportarlo a casa a fare il suo dovere. E la cosa che li imbestialiva di più è che, se l’avessero trovato, nemmeno potevano spezzargli le ossa: dopotutto era loro cognato. Ma una bella ripassata senza fratture gliel’avrebbero data, signorsì.
Furono interrogati i familiari di Marino e questi negarono di sapere dove il ragazzo fosse. Anzi, si dissero preoccupati per la sua sorte. Anche il fratello maggiore, architetto della fuga, si dimostrò ignaro delle sorti del promesso sposo. Promesso sposo che, intanto, a Milano s’era piazzato a casa dello zio che l’aveva accolto come un figlio e gli aveva dato pure un lavoro e uno stipendio passabile.
Passarono così due mesi, mesi in cui la pancia di Mimma lievitava e le chiacchiere non si assopirono. I fratelli della sposa non erano persuasi del fatto che i familiari del futuro cognato non sapessero nulla e tornarono in montagna. Trovarono il fratello di Marino a riposare seduto vicino la stalla. Anziché prenderlo con le cattive tentarono la carta del benessere e gli proposero di venire a sua volta a lavorare al paese, che loro lo avrebbero aiutato a trovare un buon posto e una buona casa e a patto che egli li avesse aiutati a sua volta a ritrovare il fratello in fuga. Fatto sta che in montagna cominciava a starsi davvero male. La campagna produceva poco, il lavoro era duro e il padre stava invecchiando e non era più quello di una volta. La proposta allettò il fratello di Marino. Si fece promettere che non sarebbe stato torto un capello allo sposo e spifferò tutto.
Marino tornò in paese senza fratture ma con qualche livido sotto i vestiti, dove non si vedeva. Se ne accorse solo Mimma quando lo abbracciò piena di gioia per averlo ritrovato e lo sentì lamentarsi quando lo strinse a sé. Si sposarono dopo due settimane. Ebbero il bambino che Mimma aveva in grembo e altri quattro figli. Vissero insieme tutta la vita e, a quel che si sa, marino fu marito fedele. Mimma lo fu per forza di cose dato che il tempo non fu affatto clemente con la sua già avanzata bruttezza. Marino non parlò più col fratello.

venerdì 3 gennaio 2014

I Racconti della Marca Bassa - POCALISSE




Faceva un caldo dell’altro mondo il giorno del funerale di Giancarlo. Solo che, se andate in paese oggi, a distanza di anni, e chiedete a qualcuno, il primo che passa, di raccontarvi dei funerali di Giancarlo vi si chiederà: “Giancarlo chi?”. Perché, vedete, nei paesini di quella regione stretta tra gli Appennini e il mare Adriatico, avvezza alle perturbazioni dai Balcani e dello Scirocco estivo, benedetta da un clima mitissimo d’estate e comunque piacevole d’inverno, un luogo dove si va dalla costa al monte Sibillino in meno di un’ora, i nomi non dicono nulla: contano i soprannomi. E il nostro Giancarlo (che di giancarli lì ce n’erano diversi) si chiamava per tutti Pocalisse. Di fatto questo curioso personaggio, sempre vestito con un grembiule da farmacista o da macellaio, fate voi, bianco all’origine e chiazzato di ogni colore del creato per le sue peregrinazioni urbane, era per tutti Pocalisse perché, come nei romanzi d’appendice o nei peggiori film di fantascienza, dove c’è sempre quella specie di diogene dei poveri che gira urlando per le strade annunciando la fine del mondo, girava appunto per i vicoli del paesello avvertendo il prossimo dell’Apocalisse imminente. E dava anche la data precisa: il 27 luglio del millenovecentottantare. Si sa: da quelle parti si storpiano i nomi, figuriamoci i soprannomi. E così Giancarlo divenne per tutti Pocalisse.
Lui lo annunciava già dall’ottantadue per cui ci si meravigliò non poco quando il 26 luglio del fatidico ottanantatre, altra giornata di un’afa infernale, Pocalisse fu trovato stecchito e un po’ appuzzato vicino ad un bidone della spazzatura davanti al palazzaccio, stroncato da un infarto o da una roba simile. Non avendo parenti prossimi, e quelli poco più che prossimi o remoti che fossero erano latitanti per vergogna della suddetta parentela, il funerale fu preso in carico dal Comune. E siccome Pocalisse era da tutti conosciuto e tutto sommato amato per quel tocco di colore e stramberia che dava ad un borgo altrimenti morto stecchito, si decise di dargli un funerale coi controfiocchi, in chiesa col parroco, il Sindaco e pure i carabinieri.
Dato che il decesso era fatto risalire intorno alle ore dodici del giorno prima, le ventiquattrore di legge cadevano ad un orario improbabile per un funerale, soprattutto in base al caldo boia che faceva. Così si stabilirono le funzioni per le diciassette, che avrebbe almeno rinfrescato un po’. E le si stabilirono nella chiesa nuova, quella fuori le mura, perché si prevedeva un flusso di gente al di sopra del normale.
Alle sedici e trenta del 27 luglio 1983 alla chiesa nuova fuori le mura, sul selciato, c’erano almeno quaranta gradi. Dentro la chiesa non si sa ma di gradi ce n’erano tanti. E c’era anche tanta gente, forse troppa per la struttura. Col caldo bestia che faceva tutte le donne erano venute armate di ventaglio. Gli uomini presero il libretto dei canti e lo trasformarono tutti in ventaglio anch’esso.  Il parroco cominciò la messa e già c’era tutto un frullare di mani e mantici più o meno improvvisati. Il caldo non calmava, anzi, e verso metà predica c’era già qualcuno che dubitava di arrivare vivo alla benedizione. Don Dino, poi, si applicò non poco per fare una di quelle omelie che sarebbero pure state toccanti a novembre ma il 27 di luglio alle diciassette e rotti, con quel caldo, erano solo una specie di tortura inquisitoria.
Alla Comunione erano ancora tutti vivi eccetto Pocalisse. I ventagli però frullavano rumorosamente. I pochi che ebbero la forza di alzarsi per comunicarsi portarono con sé il ventaglio o il facente funzione e non smisero di sventolarsi nemmeno mentre il prete gli dava l’ostia. Il rumore dell’aria smossa dalle ventole a mano si faceva evidente, forte addirittura. Si arrivò alla benedizione che si sentiva più il suono dell’aria smossa che le parole di don Dino. E qui accadde l’incredibile: quando il prete prese a spargere l’incenso sulla bara il ritmo dell’ondeggiare del turibolo prese a coincidere con quello della gran parte dei ventagli. Dopo pochi istanti, per un incredibile scherzo del destino, tutti i ventagli andavano allo stesso tempo, avanti e indietro. La chiesa si rinfrescò di botto.
Ognuno sentiva l’aria del proprio ventaglio e quella del vicino, di quello davanti e anche di quello dietro.  L’aria cominciò a turbinare, piano, poi crescendo, un po’ più forte, più forte sempre più forte, e iniziò a girare e girare e vorticare nella chiesa. Tutti smisero di sventolarsi ma ormai era l’inerzia a muovere l’aria, unita a qualche strano fenomeno fisico dovuto al contrasto tra aria fredda e calda che non so spiegare. Fatto sta che si generò un vento forte, il vento girava su se stesso con velocità sempre più spinta. Nella chiesa nuova fuori le mura volava tutto: fogli, piante, indumenti. La gente si buttò a terra terrorizzata. I banchi ballavano, le candele si spensero, le luci elettriche pure. Il prete cominciò a salmodiare in latino. Quelli vicini alla porta cercarono di prendere l’uscita ma le porte si richiusero di schianto. E un vortice fortissimo si sprigionò dalla platea verso il tetto. E il tetto, con un rumore simile a quello di un tuono ma più terrificante, in un nuvolo di calcinacci polverosi, volò via. Volò per quasi un chilometro e si schiantò in mezzo a un campo di girasoli, rovinandoli tutti. Insieme al tetto volò via la bara che, però, fece poca strada e si fermò, rovesciata, sul selciato davanti alla chiesa.
Pochi istanti di armageddon e tutto finì. Il vento si calmò e la gente si rialzò. Il prete riprese coscienza e cominciò a placare il terrore dei fedeli. I carabinieri aprirono a spallate la porta. Uscirono tutti come l’acqua esce dallo scarico del lavandino e fu incredibile che nessuno fini calpestato. Tutti corsero a casa, sindaco compreso, e rimasero solo il prete e i carabinieri di fronte alla bara sottosopra del povero Giancarlo. Il paese volò via sulle proprie gambe, anelante la sicurezza delle proprie mura e l’oblio.
La spiegazione ufficiale fu che sulla chiesa si era abbattuta una tromba d’aria estiva e aveva divelto il tetto costruito, si suppose,  non proprio a regola d’arte, tanto che l’ingegnere che aveva firmato il progetto, invero senza nemmeno leggerlo, fu inquisito ma poi assolto per insufficienza di prove.  Ma chi c’era giura ancora che la tromba d’aria non era venuta da fuori: era nata dentro la chiesa, dai ventagli. E un paio dei carabinieri che andarono a raccogliere la bara di Pocalisse, dopo un paio di bicchieri al bar (presi fuori servizio, ben inteso) si lasciarono sfuggire di avere sentito, o almeno era parso loro di sentire, una specie di sghignazzo che sembrava, ribadirono sembrava, provenire da dentro la cassa.