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venerdì 2 settembre 2016

Succhiato dal treno



Alberto, il nonno di Carla era andato un giorno a Roma per lavoro, quando ancora Carla era piccolina. Prima di tornare le aveva comprato una bambolina di pezza. Poi era andato a prendere il treno alla stazione. Ma mentre il suo treno si stava fermando per farli salire lo aveva succhiato. Non risucchiato, succhiato. Alcuni altri passeggeri che erano vicini a lui in quel momento lo avevano letteralmente visto sparire sotto le ruote, non come uno che finisce sotto un treno e poi viene schiacciato, piuttosto come l’acqua che fluisce nel tubo di scarico, o come un grosso ciuffo di lana di polvere aspirato di botto dalla scopa elettrica. Era finito sotto il treno che ancora aveva in mano la bambolina per Carla. La valigia, invece, era rimasta sul marciapiede. Un passeggero aveva affermato – e poi subito smentito, per non passare da matto – di averlo visto attorcigliarsi intorno alle ruote come un filo intorno al rocchetto. Quando il treno si era fermato erano tutti corsi a guardare sotto pronti ad aspettarsi uno spettacolo raccapricciante fatto di sangue e carne maciullata. Invece sotto il treno non c’era proprio niente. Nessuna traccia di Alberto, ne era rimasta solo la valigia ferma in mezzo al marciapiede.
Carla non si diede pace fin da subito. Era attaccatissima al nonno e la sua perdita la faceva star male. Il fatto poi di non averlo potuto seppellire non aiutava il suo animo a smaltire la perdita. Così, da quando fu appena più grandicella, prese a cercare il nonno sotto ogni treno che aveva modo di vedere. Occupò ogni istante del suo tempo libero per andare nelle stazioni a cercare tracce, segni, segnali del nonno. Da grande, poi, cominciò a girarsi tutte le stazioni d’Italia e a passare il tempo sulle banchine a guardare le ruote dei treni che giravano arrivando e partendo. Si era fatta una posizione, Carla. Aveva un buon lavoro e guadagnava bene. Per il suo lavoro doveva viaggiare spesso ma mai prendeva il treno. Si rifiutava di salirci e viaggiava con tutto tranne che col treno. Ma conosceva perfettamente tutte le stazioni di Italia e spendeva ogni istante che il suo lavoro le lasciava libero in questa sua ricerca illogica. Per questo non si era mai legata a nessuno, non aveva famiglia e anche i rapporti con i suoi genitori, ormai anziani, erano sporadici e frettolosi. Ma in tutti questi anni di cerca non aveva mai trovato nulla.
Si era anche informata se fossero mai capitati casi analoghi, di gente succhiata dal treno e mai più ritrovata. Aveva spulciato le cronache, aveva chiesto in giro. Mai nulla. Sembrava che la sparizione di suo nonno fosse una cosa mai successa prima e mai più ricapitata. E la stessa era stata ormai dimenticata, archiviata come uno di quei casi inspiegabili che, forse, è meglio rimuovere per non farsi troppe domande. Carla non dimenticava, non poteva, non ci riusciva. E proseguiva nel suo viaggio di stazione in stazione senza mai prendere il treno.
Capitò però un giorno che si trovò bloccata dalla neve Bologna. Strade chiuse, aeroporto chiuso, nessuna possibilità di muoversi da lì. Ma doveva andare a Roma a tutti i costi. Era troppo importante per il suo lavoro. L’unico modo era il treno. Così Carla prese il primo treno che dalla stazione centrale di Bologna andasse a Roma. Mentre era ferma sul marciapiede e il suo treno arrivava frenando col suo stridore di ferro per fermarsi, com’era solita Carla guardava le ruote girare. Fu allora che vide una macchia multicolore su una ruota che, girando, passava sulla ruota accanto e a quella accanto ancora e così via come Charlie Chaplin passava tra gli ingranaggi della macchina di Tempi Moderni. Le ruote stavano rallentando e quando furono quasi ferme vide che quella macchia sembrava proprio una bambola.
Si chinò per guardare meglio ma fu travolta dalla folla che saliva sul convoglio. Quando la ressa si calmò guardò meglio ma davanti a sé c’era soltanto una ruota d’acciaio scuro. Salì sul treno perplessa e nervosa per non aver potuto approfondire quella che, tutto sommato, ora sembrava solo un’impressione. A Sasso Marconi già dormiva. Dormì un sonno pesante che non fu disturbato da niente e nessuno, nemmeno il controllore che la lasciò dormire. Sognò. Naturalmente sogno il nonno, ma al risveglio non si ricordava nulla del sogno. E si svegliò a Roma Tiburtina. Con una bambolina di pezza in mano, una di quelle di altri tempi, che ora non si facevano più, con attaccato ancora il cartellino di garanzia.

sabato 27 dicembre 2014

Non era il suo letto



Si alzò per andare ad urinare che erano le tre in punto. Non accese la luce, neanche aprì gli occhi, tanto la strada dal letto fino alla tazza la conosceva a memoria. Appoggiò la mano al muro dietro il water tanto per prendere la mira ad occhi chiusi, fece quel che doveva fare ascoltando il rumore del suo prodotto che cadeva in acqua che testimoniava la sua buona mira anche a buio, tirò lo sciacquone e girò su se stesso in direzione del letto cercando di non svegliarsi del tutto per ripiombare tra le braccia di Morfeo o chi per lui senza neanche accorgersi della minzione e della passeggiata che essa aveva richiesto. Si sedette sul bordo del letto e si stese supino sotto il piumone. Ma qualcosa non tornava.
Sentiva la testa troppo bassa rispetto al solito e gli avvallamenti del vecchio materasso non corrispondevano. Ebbe la netta impressione che quello non fosse il suo letto. Anzi, ne fu sicuro. Allungò la mano in cerca dell’interruttore della lampada da comodino ma trovò il nulla, il vuoto. Non c’era l’interruttore, non c’era la lampada, non c’era il comodino. Fece per alzarsi ma un peso inconsistente sul petto gli impedì di mettersi a sedere come era nelle sue intenzioni.
Sempre più agitato cercò dalla parte opposta l’altro interruttore, quello a peretta che pendeva dal centro della spalliera del letto e che comandava la luce grande. Non c’era, l’interruttore, e non c’era nemmeno la spalliera del letto. Dietro alla sua testa anziché il rassicurante consueto pezzo di legno scolpito da una macchina a controllo numerico c’era il vuoto. La sua mano indugiò a mezz’aria alla ricerca di qualcosa di solido ma non trovò niente.
Cominciò a sudare freddo, freddo intenso e goccioline di sudore che colavano dalla fronte verso le orecchie. Lacrime cominciarono a stillare dai bordi dei suoi occhi spalancati nel buio pesto di quella che, era certo, non era la sua camera da letto. Terrore e ansia e la consapevolezza di trovarsi in un luogo sconosciuto gli annebbiarono i pensieri, la testa prese a girare, le mani a tremare, e un dolore acuminato gli trafisse la spalla e il petto sempre più oppresso da quel macigno invisibile e intangibile. Il respiro si fece corto, sempre più corto, fece per gridare aiuto ma gli uscì solo un rantolo soffocato.
Lo trovarono così, supino sul letto, con gli occhi sbarrati, steso al contrario, coi piedi sul cuscino e la testa in fondo al suo vecchio letto

venerdì 12 dicembre 2014

Giustì, la bicicletta e la macchina - di Luca Craia




Giustiniano, per gli amici Giustì, era un padre di famiglia di una famiglia numerosa. Non numerosissima per quegli anni – nell’immediato dopoguerra avere cinque figli era la norma – ma comunque pochi non erano e facevano un gran baccano. Oltretutto si viveva in poco più di tre stanze di una vecchia casa e i ragazzi erano abituati a vivere, mangiare, dormire ammucchiati di qua e di là. È facile immaginare quanto fosse frequente, per non dire continuo, litigare, strattonarsi, spintonarsi, farsi ogni sorta di dispetti tra cinque fratelli la cui età variava dagli otto ai quattordici anni.
Giustì andava a lavorare fuori paese. Ogni mattina prendeva la sua vecchia bicicletta, che teneva meglio della moglie, e pedalava per circa due chilometri prima di arrivare in fabbrica. C’era abituato, ma d’estate era caldo pedalare e d’inverno, sotto la pioggia, tra la neve, non era poi così piacevole. E gli anni cominciavano a sentirsi. Guadagnava bene, Giustì, da operaio specializzato con un’esperienza che gli veniva dal fatto di essersi messo a faticare in tenerissima età. Era tenuto in grande considerazione dal padrone che gli riconosceva uno stipendio di tutto rispetto. Così gli venne in mente un’idea e, senza dire nulla alla moglie, un giorno arrivò a casa all’ora di pranzo, si sedette al suo posto in silenzio, e ne informò la famiglia riunita intorno alla spianatura con la polenta fumante sopra.
“Ce compremo la machina” disse senza troppe sfumature mentre col cucchiaio raccoglieva un po’ di materiale giallo fumante condito coi grasselli del maiale. La moglie sgranò gli occhi e le cadde il cucchiaio. Ma non disse nulla. Il figlio più grande pensò di non aver capito e domandò, facendosi portavoce dello stupore del resto della famiglia:
- che si ditto, babbo? (che hai detto, batto?).
- So ditto che me vojo comprà la machina ( ho detto che mi voglio comprare la macchina).
- Allora so’ capito vè! (allora ho capito bene) disse la moglie.
- Perché, non te sta vene? (Perché, non ti sta bene?)
La moglie chinò la testa sulla polenta e non parlò più.
Ma scoppiò il parapiglia tra i figli. Carlo gridava “io me metto davanti!”, Maurizio replicava: “no! Davanti me ce metto io che so’ più grosso!”. “Davanti ce se mette le signore” sentenziò Mariarosa. Antonietta e Fabrizio, i più piccoli, cominciarono a disputarsi il posto dietro l’autista sul divanetto posteriore. La mamma piangeva sulla polenta. I due maschi più grandi cominciarono a spintonarsi, prima piano, poi sempre più forte e, in un attimo si ritrovarono aggrovigliati sul pavimento di mattoni tra insulti  e parolacce. I due più piccoli si presero per i capelli e cominciarono una gara a chi tirava di più. Mariarosa, la figlia di mezzo, corse in braccio alla madre a piangere in coro con lei.
Giustì finì la sua polenta con la sua solita flemma, senza muovere un muscolo, senza alzare lo sguardo dalla spianatura. Come se intorno a lui ci fosse la calma più serafica invece di una rissa furibonda si versò un bicchiere di vino e se lo bevette con la lentezza che meritava. Posò il bicchiere, prese il tovagliolo, si pulì bene la bocca, si alzò e battè forte i pugli sul tavolo, tanto forte che pareva un botto di capodanno. La rissa si bloccò, anzi, si congelò. I figli si voltarono verso il padre, la moglie e la figlia piangenti alzarono gli occhi verso di lui. E Giustì, con voce alta ma senza strillare, lo sguardo fermo, le mani incrociate sul petto sentenziò la sua decisione finale: “calete jò tutti!” (scendete tutti). Prese la sua bicicletta e tornò al lavoro.