Quindi i resti umani, almeno alcuni di essi,
ritrovati nel pozzo dell’orrore di fianco all’Hotel House di Porto sono della
piccola Cameyi, la quindicenne scomparsa nel 2010 e mai più ritrovata. Provo un
ribrezzo indicibile per questa storia, una rabbia mista a schifo, nel vero
senso della parola, per fatti che, solo a pensarne la successione, non possono
che inorridire. È impensabile che nella nostra epoca, possa esistere un luogo
in cui una ragazzina di quindici anni entra per poi sparire nel nulla, salvo
poi scoprire che è stata uccisa, smembrata e gettata via come un rifiuto, tutto
questo senza che nessuno se ne accorga, senza che, in un complesso in cui vivono
migliaia di persone, qualcuno veda, qualcuno provi pietà, qualcuno inorridisca.
La pietà, la profonda commozione per la tragica fine
di questa giovane vita, sfociano nella rabbia, inevitabilmente, perché è
inaccettabile che questo accada, è inaccettabile che possa esistere un tale
orrore, è inaccettabile che la nostra società consenta, dietro motivazioni di
ordine ideologico e a un pietismo peloso, l’esistenza di un luogo dove orrori
si questo tipo possano essere normali. E all’Hotel House questo orrore è
normale: ci sono altre ossa, altri resti in quel maledetto pozzo, ci sono altre
vite gettate via come fossero immondizia.
Non è pietà quella di commuoversi per i ragazzini
dell’Hotel House che non hanno altri posti dove vivere, non è un sentimento
umanitario, non è empatia: è ipocrisia. Perché l’empatia, il sentimento umanitario,
la pietà dovrebbero portare a trovare soluzioni diverse ma, soprattutto,
dovrebbero considerare inconcepibile l’esistenza di un luogo così empio,
malefico, diabolico.
L’Hotel House va smantellato, va raso al suolo. Chi ci
vive deve andare altrove. Chi deve andare in prigione, chi deve andare via dal
nostro Paese, chi in luoghi dove vivere degnamente e civilmente. Ma quel mostro
di cemento pieno di storie inenarrabili, pieno di male, va distrutto,
cancellato dalla faccia della terra. E va fatto ora, perché il male non si
ferma se ogni tanto accendiamo una telecamera davanti al palazzo dell’orrore.
Luca Craia