giovedì 3 maggio 2018

Fake news: abuso del termine e voglia di informazione controllata


Faccio una premessa, onde evitare che qualche sindaco mi denunci, hai visto mai: sto scrivendo una mia opinione personale, non una notizia, per cui, se non si è d’accordo, evitiamo per favore l’accusa di moda oggigiorno, quella di diffondere bufale, fake news. Definiamo il termine: fake new, tradotto in italiano, significa notizia falsa. Mi pare avvilente specificare che, se uno scrive la propria opinione su un determinato argomento, non può in alcun modo scrivere una fake new perché, prima di tutto, non sta scrivendo una notizia, in secondo luogo perché un’opinione può essere opinabile, discutibile, persino stupida ma certamente non può essere falsa, proprio in quanto opinione.
Sono pochi, in Italia, a potersi permettere il lusso di usare gli organi di informazione per il proprio interesse. Bisogna possederli, i mezzi di informazio, almeno possederne parecchi, oppure bisogna occupare ruoli di potere molto ma molto in alto. Se non si soddisfa almeno una di queste condizioni o, preferibilmente, tutte e due, rimane difficile manipolare le notizie e si rischia di farsi male, non solo, di far male alla causa per la quale si combatte. Io, a volte, capisco le intenzioni di certe istituzioni locali, ansiose di difendere il proprio operato e, magari, anche il territorio che amministrano; le capisco ma non posso condividere il merito delle sue accuse all'informazione non condivisa, accuse che, per chi fa, appunto, informazione, sono pesanti e offensive. L’accusa di diffondere notizie false è un’accusa molto grave, un'arma che può far male che può anche ritorcesi contro chi la usa.
Lo stesso vale per la minaccia di adire vie legali contro chi è colpevole di aver espresso una propria opinione, quandanche questa opinione sia contraria alla propria, persino se questa opinione ci fa proprio saltare i nervi, posto che, chi occupa un ruolo istituzionale, dovrebbe quantomeno saper controllare i propri nervi. È un comportamento molto diffuso, in questi tempi bui, quello di minacciare azioni legali così, come si augurasse buongiorno. È un sistema che, nella testa di chi lo usa, serve a tacitare le voci contrarie, quelle che non fanno comodo. Spesso neanche funziona, ma è comunque raccapricciante, becero, dittatoriale e, consentitemi, anche un po’ mafioso, laddove la lupara viene sostituita dalla carta bollata.
C’è una gran voglia di silenzio tra i terremotati, e la capisco. Ma non la condivido. Il silenzio non può essere telecomandato, non si possono tacitare le voci, quelle stesse voci che, fino a che hanno pronunciato parole concordanti con le proprie idee e i propri bisogni, erano ben accette, anzi, amplificate. In democrazia l’opinione contraria va accettata, eventualmente discussa e confutata, ma mai tacitata. È pericoloso chiedere il silenzio, in certi casi, perché lo si potrebbe ottenere. Ce n’è già tanto, di silenzio, troppo. Ai pochi che ancora alzano la voce, che ancora cercano di veicolare le istanze rimaste inascoltate, non si può chiedere il silenzio a comando, per poi riaccendere il megafono quando se ne ha la necessità. Si rischia che non si riaccenda, o che sia occupato da altre voci.

Luca Craia