Non ho
proprietà a Visso. Non ci sono nato. Non ci sono vissuto. Ci ho solo passato
momenti felici, da bambino, coi miei amati e compianti genitori, momenti per
rivivere i quali pagherei più di quel che ho. Poi ci ho vissuto momenti
altrettanto felici, con i miei amici, con mia moglie, con i miei figli. Non c'è
periodo della mia vita che non abbia ricordi legati a questi luoghi. È come un
richiamo, quello del Bove e del Bicco, una voce che mi ha sempre condotto qui,
tra i boschi odorosi, tra quell'acqua che scorre suonando un'arpa divina, tra
quei palazzi di pietra, quelle torri guardiane.
Dal terremoto
di ottobre non ci sono più andato. Mi faceva troppo male. Ho scritto di Visso e
dell'alto Nera con tutto l'amore che ho per questo spazio del cuore e col
distacco di chi vede le cose da lontano, non vivendole sulla propria pelle. Questo,
credo, mi ha dato una certa lucidità.
Ma dovevo
andare. Volevo andare. Non volevo andare ma dovevo e volevo. Così oggi ho colto
l'invito di amici e sono tornato a Visso, dopo nove mesi dall'ultima volta.
Tornare a casa
è tornare a casa. Visso non è casa mia ma è come se lo sia, ha un posto nel mio
cuore, ha un pezzo del mio cuore. Mi sono seduto su una panchina vicino al
laghetto, ora tristemente asciutto, e ho sentito l'abbraccio di mia madre, la
mano di mio padre che medicava il mio ginocchio sbucciato su quel vialetto ghiaioso
quarant'anni fa. Ho rivisto i miei figli piccoli tirare molliche di pane alle
carpe del laghetto. Ho sentito quei profumi ancora vivi, nonostante la polvere
di calcinacci di tanto in tanto sollevata da una folata di vento dispettosa.
Poi ho
camminato verso il centro e mi sono fermato appoggiato a una transenna,
sopra un cartello con scritto "zona rossa". Non si può andare oltre.
La piazza era lì, dopo quell'arco puntellato. Ma non ci si può andare. E lì ho
lasciato uscire quella lacrima che da un po' spingeva. L'ho asciugata in fretta
e sono tornato alla festa, a vedere Visso che vive.
Luca Craia
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