mercoledì 8 marzo 2017

Integrazione o sostituzione culturale. La politica sull'integrazione ha fallito. Rivediamola.



Leggevo stamattina un articolo su Il Resto del Carlino che narrava di una caso verificatosi a Montappone ma che rispecchia, anche secondo lo stesso giornalista, il quadro nazionale. Nella scuola per l’infanzia della patria del cappello, nove bambini su dieci sono stranieri. È un dato allarmante, non per motivi razziali come qualcuno starà già pensando, ma per tutelare gli stessi stranieri e la nostra sopravvivenza culturale. I conti sono facili da fare: se il 90% dei bambini che frequentano la scuola materna sono stranieri, è logico pensare che, per quanto la percentuale si possa abbassare al di fuori della scuola, nel prossimo futuro avremo una maggioranza di cittadini di origine straniera rispetto agli autoctoni italiani.
Una maggioranza che avrà una cultura diversa dalla nostra, almeno a quanto possiamo vedere oggi, nel senso che le etnie che sono giunte in Italia non si stanno integrando culturalmente. Per integrazione intendo il processo tramite il quale una persona, proveniente da luoghi e culture diversi, pur mantenendo le proprie radici culturali, assimila e fa sua la cultura del luogo dove va a vivere, diventando parte integrante della società che lo accoglie. Questo, in Italia, non sta succedendo o, almeno, succede in maniera molto parziale.
Le varie etnie giunte negli ultimi anni tendono ad autoghettizzarsi, per niente aiutate dalle istituzioni italiane che, per ovvi motivi di comodo, preferiscono creare quartieri-ghetto, scuole-ghetto e punti di aggregazione ben separati, nonostante sporadiche iniziative, lodevoli quanto isolate, e a volte ipocritamente autoassolutorie. Fare corsi di italiano per stranieri, per esemplificare, è cosa buona e giusta, ma se, nel contempo, gli stranieri vivono in palazzi di soli stranieri, in isolati di soli stranieri, in quartieri di soli stranieri, in classi scolastiche di soli stranieri, il corso di italiano diventa sterile e falso. L’integrazione richiede mescolanza, richiede contatto tra le culture e richiede che lo straniero assimili la cultura che lo ospita.
La contaminazione culturale è positiva ma non può prevedere il soccombere della cultura del paese ospitante o il suo snaturamento; quando c’è la convivenza tra culture diverse, la cultura autoctona va salvaguardata. E questo non perché essa sia migliore delle altre (anche se, nel nostro caso, ritengo quella occidentale, per quanto imperfetta, molto più evoluta di altre culture importate negli anni) ma perché è indispensabile evitare spaccature sociali che possano, nel lungo periodo, creare conseguenze disastrose.
Lo straniero che giunge in Paese che lo accoglie, trova una struttura sociale e regolamentare che è diversa dalla sua. Integrazione significa che lo straniero debba inserirsi in questa struttura senza cercare di cambiarla, accettandola e assimilandola. Se così non fosse, dopo pochi anni, specie in una situazione di calo demografico drastico come quello che si vive in Italia, si creerebbe una pericolosissima dicotomia tra la cultura radicata e regolamentata e quella nuova, con una ingestibile discrepanza comportamentale rispetto alla regola.
Nell’immediato, invece, i problemi sono evidenti: se si crea il ghetto, se si amplifica la distanza naturale tra le culture tenendole separate e non stimolando e incentivando la vera integrazione, si va allo scontro e all’alienazione dello straniero. Del resto è sotto gli occhi di tutti come gli immigrati di seconda o terza generazione non si stiano integrando ma tendano a fare massa critica con la loro stessa etnia o, al massimo, con autoctoni che vivono situazioni di alienazione sociale. È evidente che la politica di integrazione fin qui adottata ha fallito. Occorre rivederla in maniera drastica e renderla efficace.
                                      
Luca Craia

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