venerdì 12 dicembre 2014

Giustì, la bicicletta e la macchina - di Luca Craia




Giustiniano, per gli amici Giustì, era un padre di famiglia di una famiglia numerosa. Non numerosissima per quegli anni – nell’immediato dopoguerra avere cinque figli era la norma – ma comunque pochi non erano e facevano un gran baccano. Oltretutto si viveva in poco più di tre stanze di una vecchia casa e i ragazzi erano abituati a vivere, mangiare, dormire ammucchiati di qua e di là. È facile immaginare quanto fosse frequente, per non dire continuo, litigare, strattonarsi, spintonarsi, farsi ogni sorta di dispetti tra cinque fratelli la cui età variava dagli otto ai quattordici anni.
Giustì andava a lavorare fuori paese. Ogni mattina prendeva la sua vecchia bicicletta, che teneva meglio della moglie, e pedalava per circa due chilometri prima di arrivare in fabbrica. C’era abituato, ma d’estate era caldo pedalare e d’inverno, sotto la pioggia, tra la neve, non era poi così piacevole. E gli anni cominciavano a sentirsi. Guadagnava bene, Giustì, da operaio specializzato con un’esperienza che gli veniva dal fatto di essersi messo a faticare in tenerissima età. Era tenuto in grande considerazione dal padrone che gli riconosceva uno stipendio di tutto rispetto. Così gli venne in mente un’idea e, senza dire nulla alla moglie, un giorno arrivò a casa all’ora di pranzo, si sedette al suo posto in silenzio, e ne informò la famiglia riunita intorno alla spianatura con la polenta fumante sopra.
“Ce compremo la machina” disse senza troppe sfumature mentre col cucchiaio raccoglieva un po’ di materiale giallo fumante condito coi grasselli del maiale. La moglie sgranò gli occhi e le cadde il cucchiaio. Ma non disse nulla. Il figlio più grande pensò di non aver capito e domandò, facendosi portavoce dello stupore del resto della famiglia:
- che si ditto, babbo? (che hai detto, batto?).
- So ditto che me vojo comprà la machina ( ho detto che mi voglio comprare la macchina).
- Allora so’ capito vè! (allora ho capito bene) disse la moglie.
- Perché, non te sta vene? (Perché, non ti sta bene?)
La moglie chinò la testa sulla polenta e non parlò più.
Ma scoppiò il parapiglia tra i figli. Carlo gridava “io me metto davanti!”, Maurizio replicava: “no! Davanti me ce metto io che so’ più grosso!”. “Davanti ce se mette le signore” sentenziò Mariarosa. Antonietta e Fabrizio, i più piccoli, cominciarono a disputarsi il posto dietro l’autista sul divanetto posteriore. La mamma piangeva sulla polenta. I due maschi più grandi cominciarono a spintonarsi, prima piano, poi sempre più forte e, in un attimo si ritrovarono aggrovigliati sul pavimento di mattoni tra insulti  e parolacce. I due più piccoli si presero per i capelli e cominciarono una gara a chi tirava di più. Mariarosa, la figlia di mezzo, corse in braccio alla madre a piangere in coro con lei.
Giustì finì la sua polenta con la sua solita flemma, senza muovere un muscolo, senza alzare lo sguardo dalla spianatura. Come se intorno a lui ci fosse la calma più serafica invece di una rissa furibonda si versò un bicchiere di vino e se lo bevette con la lentezza che meritava. Posò il bicchiere, prese il tovagliolo, si pulì bene la bocca, si alzò e battè forte i pugli sul tavolo, tanto forte che pareva un botto di capodanno. La rissa si bloccò, anzi, si congelò. I figli si voltarono verso il padre, la moglie e la figlia piangenti alzarono gli occhi verso di lui. E Giustì, con voce alta ma senza strillare, lo sguardo fermo, le mani incrociate sul petto sentenziò la sua decisione finale: “calete jò tutti!” (scendete tutti). Prese la sua bicicletta e tornò al lavoro.

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